La ‘Seduzione interrotta’, un nuovo dipinto di Artemisia Gentileschi
GIANNI PAPI, con la collaborazione di NINA GRAM BISCHOFF
Ancora torno a scrivere di Artemisia, perché ho potuto effettuare, in modo del tutto fortunato e casuale, la scoperta di un dipinto finora non riconosciuto alla pittrice, che è giusto portare alla ribalta (Fig. 1).
Un dipinto che, malgrado uno stato di conservazione tutt’altro che eccellente in alcune parti, mostra altresì, nelle zone giunte a noi in buone condizioni, una qualità smagliante, che non lascia dubbi sull’autografia della Gentileschi.
La tela, che misura cm 94,5 x 142, è conservata nei depositi del Museo Nazionale di Oslo e raffigura quella che può sembrare una Scena di seduzione, in cui una donna (forse una mezzana) illumina con una candela una coppia impegnata in effusioni amorose (si potrebbe pensare a una prostituta col suo cliente).
Tuttavia è più probabile che il significato della scena possa essere sensibilmente diverso, visti i gioielli della donna al centro della seduzione e il suo fare ritroso, timido (oppure imbarazzato a causa dell’esser colta in flagrante?), non proprio corrispondente a quello di una meretrice; anche la donna con la candela sembra quasi irrompere nella scena con preoccupazione o gelosia, come se con sorpresa e disappunto scoprisse la tresca dei due amanti.
Non chiaro il ruolo dell’altra figura femminile che si affaccia sulla scena all’estrema destra: una donna anziana che si porta le mani al petto incrociandole, come a sottolineare la sorpresa e forse lo scandalo. Quest’ultima è davvero molto malconcia (la si scorge a malapena) e potrebbe anche venire il dubbio che non appartenga alla stesura finale dell’immagine, ma che sia il frutto di una precedente idea cancellata dalla pittrice e riemersa a causa del logoramento della superficie.
Fatte queste considerazioni, potrebbe allora essere più calzante il titolo che si trova nel catalogo del museo norvegese (sotto il numero NG M 00047): la Seduzione interrotta.
Apparentemente sembra che il soggetto non abbia alcun riferimento storico o religioso, al contrario dei vari temi, dal forte contenuto sensuale, che Artemisia ha più volte affrontato (Susanna, Lucrezia, Lot e le figlie, Maddalena…). Qui viene raffigurata una scena che potremmo definire di genere, in mancanza di migliori categorie per poterla classificare. Ma a differenza degli aspetti, spesso ironici o grotteschi, che hanno raffigurazioni come questa, qui il naturalismo di matrice caravaggesca che ha costituito l’origine del linguaggio artistico di Artemisia rende l’immagine sensuale, e allo stesso tempo malinconica e inquieta, nell’abbandono erotico, incurante del pericolo, dell’uomo e il dispiacere amaro della donna con la candela (forse legata al protagonista da un affetto più stabile?).
La tela si è potuta vedere molto raramente nelle sale del museo di Oslo, negli ultimi anni solo nel 1998, quando l’istituzione – in occasione di una mostra che celebrava i primi venticinque anni di vita del museo (1837 – 1862) – decise di esporre opere acquisite in quel periodo; per quanto riguarda il nostro dipinto, esso sicuramente giaceva nei depositi da più di cinquant’anni, e del resto tuttora vi si trova1 M. Lange, in Nationalgalleriets første 25 år, catalogo della mostra, Oslo, 1998, p. 109. .
Come ho appena detto, l’opera ha diversi problemi di conservazione, ben evidenziati dal dossier del 1998 steso dal museo al momento della mostra suddetta, quando la tela venne esaminata e fu oggetto di un maquillage conservativo (ad esempio viene dichiarato che la bocca della donna al centro della seduzione è stata migliorata con una sottile ridipintura).
Il restauro era avvenuto nel 1955 e da una fotografia scattata allora si possono ben rilevare sofferenze diffuse nella parte inferiore della composizione, nei capelli della protagonista e nel cappello di pelliccia dell’uomo. Ma una certa crudezza di passaggi diffusi nella figura centrale è indice, sia di puliture passate troppo energiche, ma anche di evidenti, talvolta non raffinate, ridipinture.
Tuttavia le parti rimaste integre – come la figura della cosiddetta mezzana (che, come si è detto, forse mezzana non è) e gran parte di quella del protagonista maschile, dal volto bellissimo per sensibilità luministica e raffinatezza pittorica nel delinearne l’espressione rapita, davvero carica di sensualità – sono brani di un livello qualitativo molto alto (Figg. 2-3).
E che dire di quei blu elettrici tipici della pittrice, o del bianco grumoso, spesso, della camicia della donna con la candela (Fig. 4), di quel suo preoccupato, quanto avvilito, indagare? E poi quei colori brillanti, quelle ocra così tipiche, il rosso della manica dell’uomo, con le pieghe tipicamente rialzate di luce, e quelle pennellate nervose, date spesso senza la cura di fondersi, di apparire mimetiche, come sulla stessa manica, nel colletto, nei movimentati azzurri e blu delle vesti delle due donne.
Sono tutti segnali, bellissimi, dell’autografia di Artemisia, caratteristiche evidenti del suo linguaggio in anni maturi, probabilmente già nei primi anni napoletani.
Infatti i confronti migliori si possono stabilire con le opere del primo decennio trascorso nella capitale partenopea (ma anche con le opere probabilmente realizzate a Londra nel 1639, come il David con la testa di Golia che nel 2020 ho pubblicato in ” The Burlington Magazine”)2 G. Papi, A ‘David and Goliath’ by Artemisia Gentileschi rediscovered, in ‘The Burlington Magazine’, CLXII, 1404, 2020, pp. 188-195. , cioè il quarto decennio del XVII secolo (Fig. 5).
Rispetto al David corrispondono certi tipici particolari, come il trattamento dei bianchi della camicia dell’eroe biblico rispetto a quelli della manica della donna con la candela nel dipinto di Oslo: sono identiche le increspature delle pieghe di cucitura, ma anche le ombre profonde come canyon e i rialzi di luce con pennellate pure di biacca. Le increspature nei punti di cucitura dei vestiti le ritroviamo diffuse anche in altre parti della veste di David, allo stesso modo che nella parte superiore della manica dell’amante nella tela in oggetto. Quest’ultima è peraltro del tutto simile, per la fluidità della struttura, per il cromatismo e per i rialzi di luce lungo le pieghe, dati con mirabile rapidità di tocco, allo stesso brano nella Clio oggi presso Palazzo Blu a Pisa, un’opera firmata e datata 1632 (Fig. 6).
Il raffinatissimo partito luministico conferma – anche in date avanzate dunque – quell’interesse per le scene a lume artificiale che Artemisia aveva già dimostrato nel capolavoro di Detroit con Giuditta e la fantesca (Fig. 7).
Proprio a quel grande quadro, la Seduzione interrotta sembra riallacciarsi, presentando un’evoluzione, non tanto nel partito delle luci, che è davvero molto simile, quanto in una maggiore libertà di tocco nello stendere la materia pittorica, che a Detroit è decisamente più densa e unita, mentre qui a Oslo appare più fluida e trasparente.
Non sfugge, fra le molte corrispondenze che legano i due dipinti, una sorta di intreccio compositivo, con la mano di Giuditta che sembra riproposta in controparte, orlata di luce, in quella della donna con la candela (la prima volta vista dal palmo, la seconda dal dorso).
Ormai appare sempre più chiaro che Artemisia possa praticare diversi registri espressivi e pittorici pressoché contemporaneamente e a distanza di tempo recuperarli in modo imprevedibile. Capita ancora una volta in questo caso; infatti tutto fa pensare che la pittrice abbia eseguito il dipinto di Oslo alcuni anni dopo – e soprattutto in scenari artistici diversi, Roma e poi Napoli – rispetto a quello di Detroit, che a sua volta sembra davvero un unicum in mezzo alle altre tele sicuramente romane e sicuramente datate, come il Ritratto di gonfaloniere di Bologna (1622), la Susanna di Burghley House (1622) e il Sinite Parvulos Alcalà oggi conservato a Roma nella chiesa di San Carlo (1626)3 La riscoperta di questo importante autografo di Artemisia porta con sé alcune riflessioni in merito a un dipinto passato in asta alcuni anni fa, presso Sotheby’s a New York (30 gennaio 2019, lotto 45), raffigurante San Sebastiano curato da Irene e riferito ad Artemisia col parere positivo di Giuseppe Porzio e di Nicola Spinosa. L’immagine, un’altra scena a lume di notte, con la figura femminile di sinistra che tiene una candela assai vicina alla corrispondente nella tela di Oslo, e le misure abbastanza simili (cm 101 x 127,5), fanno pensare a un concepimento delle due scene in tempi molto ravvicinati. Ma la qualità del dipinto transitato in asta non regge al confronto con la Seduzione interrotta, essendo il primo completamente privo della freschezza e delle trasparenze che caratterizzano quest’ultima. La pesantezza della conduzione dei panneggi e il trattamento più schematico delle parti in luce lasciano pensare che siamo in presenza di una ripresa non autografa di una composizione di Artemisia, probabilmente ancora da ritrovare. Una qualità più alta, ma tutta da verificare dopo un’eventuale pulitura del dipinto, sembra avere la versione del San Sebastiano curato da Irene che è stata esposta recentemente a Sutri (V. Sgarbi, in Da Giotto a Pasolini, catalogo della mostra a cura di V. Sgarbi e S. Pallavicini, Milano, 2020), con un’attribuzione non condivisibile a Gerrit van Honthorst. .
Con queste cautele, giustificate come si è appena detto dal carattere molto sperimentale dell’ispirazione di Artemisia, si può avanzare che la tela di Oslo debba appartenere ai primi anni del soggiorno napoletano. Un pur flebile sostegno a questa ipotesi suggerita dall’analisi stilistica, arriva anche dalle pur scarse notizie che possediamo. Da esse si apprende che la Seduzione interrotta appartenne al pittore norvegese Joachim Frich (Fig. 8), che l’aveva acquistata in un albergo vicino a Sorrento, probabilmente nel 1838; poco dopo, nel 1840, egli l’avrebbe venduta come opera di Leonardo (!) al Museo Nazionale di Oslo per la somma di 600 speciedaler (la moneta fino al 1875 in corso in Norvegia, fu sostituita con la corona norvegese, che valeva un quarto dello speciedaler).
Frich è un pittore conosciuto, specialmente nel suo paese di origine4 Sul pittore si può leggere un profilo biografico redatto da S. Willoch, in Norsk Kunstnerleksikon, Oslo, 1981. 1, pp. 693-696. Lo studioso scrive: “In the summer of 1838, Frich seems to have been on a trip to Italy. No further information is available”. ; le sue opere raffigurano soprattutto paesaggi suggestivi che hanno per soggetto la natura drammatica e selvaggia della terra dei fiordi; fra i suoi capolavori in tal senso sono certamente da annoverare le grandi tele eseguite per decorare la sala da pranzo del palazzo di Bygdøy a Oslo, residenza estiva del re di Svezia e di Norvegia, Oscar I e di sua moglie Josephine. Il suo viaggio in Italia è alla fine documentato solo da questa notizia, di sicuro attendibile e in qualche modo rafforza l’ipotesi di una genesi partenopea della tela, dal momento che Sorrento si trova a pochi chilometri da Napoli. Nel 1842 fu Frich stesso a dirigere la redazione del primo catalogo del museo e, all’interno della scheda della Seduzione riferita a Leonardo, a informare dell’acquisto in un albergo vicino a Sorrento, il cui nome rimane al momento ignoto5 Fortægnelse over de National-museets tilhørende Kunstvœrker,Christiania, 1842, n° 2. . Da un documento inedito, recuperato per questa occasione da Nina Gram, si apprende che nel 1840 Frich offrì il quadro al museo insieme ad altri quattro (uno di essi viene riferito a Caravaggio e viene valutato 600 speciedaler come la Seduzione interrotta), ma soltanto la tela in oggetto fu acquistata dall’istituzione di Oslo6 Il pittore offriva i cinque dipinti all’Art School di Oslo (Cristiania) con una lettera giunta a destinazione nei primi giorni di ottobre 1840 (traduzione dal norvegese di Nina Gram Bischoff): “The Management of the Art School of Christiania! I can offer a few excellent paintings by Italian masters, which I have come across on my journey, for a very cheap price. After having examined them, I hope that the Executive board will acknowledge that they here are offered the museum (as) a treasure which will hardly be available anymore, and that in the price I have taken little account of my own advantage. Since my intention was to send them to Paris, I must ask the Executive Board to let me know its decision as soon as possible. Most reverently, Frich. Leonardo da Vinci – 600 spd – (bought to the Nationalmuseum – written by another person)
Michel Ang. Caravaggio – 600
Andrea Sacchi – (skizze) 20
Rotari – 70
A French Master – 70”
Nasjonalmuseet/NMFK/NG-1000/D/Da/L0001/0005, jnr. 75. Thanks to A. Kongssund, the National Museum`s Library and archive. .
Nel 1841 l’opera veniva esposta per la prima volta e in quell’occasione si può registrare il commento positivo del poeta e critico Johan Sebastian Welhaven (“done in the purest style and distinguished by a soft, and yet secure drawing”), ma allo stesso tempo egli registrava già il precario stato di conservazione dell’opera, al punto di parlare, forse eccessivamente, di “a ghost of painting since the splendors of the colours is gone”. Tuttavia “its original nobilty resides there. One must admire the foreshortening of the man’s head and the lovely female hand; in each of these fingers youthful life still lives on”7 J.S. Welhaven, En Kunstudstilling I Christiania 1841, in ‘Samlede Skrifter’, 2, I, 1867, pp. 331-336. .
Nel 1845, nella seconda edizione del catalogo del museo, il nome di Leonardo era già scomparso e l’opera veniva presentata come anonima8 Fortægnelse over de National-museets tilhørende Kunstvœrker,Christiania, 1845, n° 2. ; diversi anni più tardi, nel 1882, Lorentz Dietrichson restringeva il campo e vi notava il rapporto con Honthorst e la scuola di Caravaggio9 L. Dietrichson, in Nationalgaleriets Samling of Malerier og Billedhuggerarbeider: en historisk-kritisk Beskrivelse, Christiania, 1882, pp. 10-11. . Cinque anni dopo, nel 1887, su suggerimento di un giovane studioso, Andreas Aubert, il medesimo Dietrichson, nella seconda edizione del suo catalogo, si convinceva della paternità di Rutilio Manetti10 L. Dietrichson, Nationalgaleriets Samling of Malerier og Billedhuggerarbeider: en historisk-kritisk Beskrivelse, Christiania, 1887, pp. 10-11. .
Il riferimento a quest’ultimo verrà mantenuto – più per forza d’inerzia che per altro – nei cataloghi successivi e sarà riproposto ancora nel 1998, seppure col punto interrogativo, da Marit Lange, che giustificava la difficoltà ad attribuire con certezza le tela, con le problematiche condizioni di quest’ultima: “the condition is so deteriorated, that making the task of attributing this painting to a particolar painter, became a risky affair”11 M. Lange, in Nationalgalleriets cit., 1998, p. 109. .
Infine, desta sorpresa che in tempi molto recenti uno studioso come Jesse Locker, che ha dedicato un volume ad Artemisia, in quella stessa sede ripubblichi senza il minimo dubbio la tela di Oslo come opera di Manetti, cogliendo in essa (per la quale spende l’aggettivo “lovely”) l’influenza esercitata sul pittore senese dalla Giuditta di Detroit!12 J.M. Locker, Artemisia Gentileschi. The Language of Painting, New Haven-London, 2015, pp. 74, 76-77. Locker riporta incomprensibilmente misure sbagliate e fuorvianti, cm 28,3 x 42,3, anziché cm 94,5 x 142.