Alessandro Vittoria a Vicenza e la monografia di Lorenzo Finocchi Ghersi sullo scultore trentino
MARIA TERESA DE LOTTO
La Fabbrica del Rinascimento. Processi creativi, mercato e produzione a Vicenza, mostra a cura di Guido Beltramini, Davide Gasparotto e Mattia Vinco, allestita nella Basilica Palladiana di Vicenza (11 dicembre 2021 – 18 aprile 2022), indaga i meccanismi di produzione delle opere d’arte nel tessuto socioeconomico della Vicenza del Cinquecento. Nel momento della diffusione della “Maniera moderna” si crea un felice connubio tra artisti (Palladio, Paolo Veronese, Alessandro Vittoria e Jacopo Bassano), e committenti, appartenenti alla nobiltà dell’epoca dotata di sensibilità artistica e grandi capacità imprenditoriali. Le varie sezioni della mostra e i saggi in catalogo indagano sia i meccanismi della creazione artistica, dall’ispirazione ai modelli antichi, ai passaggi dal disegno al bozzetto all’opera finita e alle eventuali repliche, tenendo conto dell’apporto della bottega, sia l’inserimento dell’opera d’arte nel contesto economico dell’epoca, trattando i temi del collezionismo, del commercio antiquario, esaminando i libri dei conti degli artisti, e proponendo una interessante tavola comparativa tra prezzi delle opere d’arte e di altre merci, e tra salari di varie categorie di lavoratori.
Ad esempio scopriamo che un dipinto di Jacopo Bassano, Ritratto di due cani legati a un tronco, valeva il doppio di un paio di guanti “da signore”, mentre la croce in cristallo di rocca realizzata da Valerio Belli per papa Clemente VII valeva oltre settecento volte lo stesso dipinto. L’allestimento nell’amplissimo spazio del salone trecentesco della Basilica palladiana gode della suggestione del grande soffitto ligneo e durante il percorso espositivo si scoprono i capolavori degli artisti citati: pitture, sculture, disegni e incisioni, opere di oreficeria, monete, modelli delle opere architettoniche palladiane, senza dimenticare i volumi del Palladio e del Trissino, allo scopo di ricostruire un ambito culturale di straordinario valore legato alle istanze politiche della leadership vicentina, votata al recupero dei valori dell’antico in funzione dell’affermazione di una autonomia culturale rispetto al dominio veneziano. Uno dei protagonisti di questa mostra è Alessandro Vittoria, scultore di origine trentina attivo anche a Vicenza nella prima parte della sua carriera quando collaborò con Palladio alla decorazione delle sale terrene di Palazzo Thiene. In mostra è rappresentato da diversi busti ritratto di rilevanti personalità, e da una terracotta in collezione privata, recentemente attribuitagli, raffigurante una figura allegorica.
A questo scultore è dedicata la pubblicazione monografica Alessandro Vittoria decoratore e scultore (1525-1608)di Lorenzo Finocchi Ghersi1 Finocchi Ghersi aveva già dedicato alla personalità artistica di Alessandro Vittoria alcuni suoi studi precedenti, da un primo volume monografico (Finocchi Ghersi 1998), ai contributi al catalogo della mostra “La bellissima maniera” (1999). Allo stesso autore si deve la cura e la pubblicazione degli atti del Convegno Internazionale di Studi Alessandro Vittoria 2001, tenuto presso l’Università di Udine nell’ottobre del 2000, ai quali ha contribuito con un saggio sui rapporti tra il Vittoria e Girolamo Campagna. , sulla quale vorrei soffermarmi.
A sottolineare l’importanza del genere nella sua produzione basterebbe citare la presenza di ventuno ritratti su un totale di quarantanove sculture elencate come autografe nel catalogo delle opere presente in questo volume. Thomas Martin, autore di una monografia dedicata a questo tema2 Martin 1998 , sostiene che i busti ritratto sono il più grande lascito del Vittoria alla storia della scultura. Senza sottovalutare il ruolo fondante del ritratto di Pietro Bembo di Danese Cattaneo, posto sul cenotafio nella Basilica del Santo a Padova (1547-48), l’inventore del busto ritratto alla veneziana è considerato lo scultore trentino, non per primato cronologico, ma per la qualità e la quantità della sua produzione. In perfetta consonanza con il gusto classicista dei suoi committenti, per lo più Procuratori della Serenissima, si ispirò alla ritrattistica tardo romana aggiornata con l’assimilazione del naturalismo e della vitalità dei ritratti pittorici veneziani, in particolare del Tiziano.
La sua capacità di ritrattista si affermò precocemente nelle medaglie bronzee realizzate all’inizio degli anni cinquanta con una tecnica da scultore: le sue medaglie erano ottenute a fusione, come fossero delle vere e proprie sculture in miniatura; lavorate non in negativo, ma in positivo, con una tecnica simile a quella dello stucco, che stava contemporaneamente applicando in Palazzo Thiene, esse recano dei ritratti raffiguranti India e Canera, coprotagonisti nella decorazione del palazzo vicentino. La vena naturalistica e il pittoricismo anticipano già i caratteri dei suoi ritratti marmorei. La produzione di questi piccoli oggetti in bronzo era, per il giovane scultore, anche un modo per farsi conoscere e apprezzare con poca spesa di materiale. Contemporaneamente, proprio in Palazzo Thiene, lo scultore modellava in stucco, nella volta della Sala dei Cesari, il Busto di Marcantonio (1551-52), ritenuto da Finocchi Ghersi un probabile ritratto di Marcantonio Thiene, che sarebbe, insieme a quello di Enrico II nella stessa sala, il suo primo saggio di ritrattistica a grande dimensione. La mostra in corso a Vicenza è l’occasione per confrontare dal vero busti provenienti da diverse sedi e di diverso materiale: i busti marmorei di Giovanni Battista Ferretti dal Louvre (1557) e di Orsatto Giustiniani dal Museo Civico di Padova (c. 1570) 3 Il ritratto Giustiniani viene invece datato da Finocchi Ghersi (2020 p. 94) circa 1580 per motivi stilistici. , i due ritratti di Tommaso Rangone, in bronzo dall’Ateneo Veneto e in terracotta dal Museo Correr (c. 1575) (Fig. 1), il ritratto di Apollonio Massa dal Seminario Patriarcale di Venezia e il suo bozzetto dall’Accademia Carrara di Bergamo (c. 1587) e il ritratto di Vincenzo Pellegrini dal museo vicentino di Palazzo Chiericati.
Dispiace non poter vedere in mostra, come annunciato nel catalogo, il busto ritratto di Leonardo Mocenigo dalla chiesa veneziana di S. Geremia, in passato attribuito al Vittoria, e ora a Giovan Battista Della Porta, per poterlo confrontare con gli altri ritratti. Anche la statua di San Sebastiano nella chiesa di S. Francesco della Vigna non è presente in esposizione mentre compare nel catalogo. Il dipinto di Paolo Veronese raffigurante Livia Thiene Porto e sua figlia Deidamia, del Walters Art Museum di Baltimore, non pervenuto a Vicenza, è sostituito da una riproduzione che forse andava segnalata in modo più evidente per non creare equivoci essendo a grandezza naturale.
Tra i ritratti citati assume particolare rilevanza quello del giurista Giovanni Battista Ferretti perchè si tratta del primo esempio di busto ritratto all’antica nella produzione del Vittoria e più in generale nella produzione veneziana rinascimentale. Ferretti era vicentino, laureato in utroque iure, insegnò diritto canonico all’Università di Padova ed esercitò la sua professione a Roma e a Venezia dove si stabilì. A Padova poté conoscere Daniele Barbaro e Marco Mantova Benavides. Morì a Venezia nel 1556 e l’anno dopo la vedova Lucia fece realizzare il monumento funebre nella chiesa di S. Stefano con il busto che fu pagato dal Barbaro, mentre, secondo un’ipotesi avanzata da Burns, il Palladio potrebbe aver fornito il disegno della tomba. Il monumento inizialmente si trovava sulla parete sinistra della chiesa, tra il secondo e il terzo altare, nel 1704 fu spostato dopo il quinto altare e prima della porta del chiostro, e finalmente nel 1742 collocato sulla parete destra della cappella absidale sinistra, ove si trova tuttora. In occasione di questo spostamento la famiglia ottenne di sostituire il busto originale in marmo con una copia in pietra. L’originale del Vittoria fu conservato presso la famiglia e in seguito venduto sul mercato antiquario, andando disperso. Nel 1994 venne identificato dal Martin nel ritratto conservato al Louvre 4 Martin1994, pp. 48-54, anche per le notizie sul personaggio. , (Fig. 2), ora visibile in mostra.
La possibilità di confrontarlo con gli altri busti del Vittoria posti nelle sale vicine mi ha persuasa a condividere l’opinione di Finocchi Ghersi che non lo ha inserito nella sua monografia, ritenendolo un’opera più tarda e non di mano del Vittoria 5 Finocchi Ghersi 2020, p. 21. . Le perplessità sono relative sia all’identificazione dell’autore sia del modello. Colpiscono la debole qualità del panneggio, la cui foggia è sensibilmente diversa da quella degli altri ritratti del Vittoria, con una sorta di bavero sotto la clamide, la fattura dei capelli e della barba piuttosto ripetitiva e dura, la lavorazione dei tratti del volto, meno sensibile di quella dei ritratti, eseguiti a poca distanza di tempo, di Benedetto Manzini (1560-61) e di Marcantonio Grimani (1557). Anche la somiglianza fisionomica con la copia settecentesca che si trova sulla tomba a S. Stefano a Venezia, purtroppo consumata dal tempo perché in pietra tenera, è generica, oltre ad essere realizzata in controparte, secondo Martin per lo spostamento dalla parete sinistra della chiesa alla parete destra della cappella6. La differenza di qualità rispetto ai successivi busti ritratto del Vittoria era stata spiegata dal Martin dal fatto che si tratta del primo ritratto eseguito in marmo dallo scultore, in precedenza più avvezzo alla lavorazione dello stucco, ma la vicinanza temporale con i busti di Manzini e di Marcantonio Grimani non giustifica questa affermazione. Essendo il primo ritratto marmoreo dello scultore non è plausibile che sia stato eseguito con l’aiuto della bottega. Inoltre in genere il Vittoria firmava i propri ritratti nello spessore del marmo sotto una delle spalle, mentre in questo caso l’iscrizione con suo nome è incisa sul piedistallo e non sembra originale 6 Martin 1994, p. 52 ritiene che l’opera non sia firmata e che la scritta apposto sul piedistallo sia del Settecento o dell’Ottocento. .
Tra gli altri ritratti esposti in mostra di tutt’altra qualità sono quelli di Tommaso Rangone (Fig. 1), il medico di origini ravennati che, stabilitosi a Venezia, finanziò la ricostruzione della facciata di S. Zulian ottenendo di porre sopra il portale la sua immagine a tuttotondo, la cui esecuzione, inizialmente affidata a Sansovino, fu poi eseguita dal Vittoria, aprendo la strada alla possibilità di raffigurare personaggi contemporanei in ritratti fisionomici anche in contesti religiosi. Di alta qualità e quindi probabilmente autografo è anche il ritratto del Giustiniani (Fig. 3), mentre quello del Pellegrini si presenta più rigido e secco nel trattamento del marmo mostrando l’intervento della bottega7 Martin 1998, p. 153 lo assegna alla bottega. . Esso non figura, infatti, nel catalogo delle opere presente nello studio monografico di Finocchi Ghersi.
Il volume è costituito da due parti: un saggio iniziale, con costanti riferimenti alle fonti e alla moderna bibliografia che ripercorre le tappe della carriera dell’artista, la sua evoluzione stilistica e il rapporto con gli architetti di cui era stato collaboratore: Sansovino, Palladio, Sanmicheli. Viene analizzato anche il legame con i pittori contemporanei che gli fornirono stimoli determinanti per l’aggiornamento della sua maniera. La seconda parte della monografia contiene il catalogo delle opere, distinte tra autografe e di bottega, ed è completata dalla segnalazione delle opere perdute, di quelle già attribuite al Vittoria da Francesco Cessi8Cessi 1960-62. e da una bibliografia essenziale.
L’attività di Alessandro Vittoria si sviluppò in sei decenni, nella seconda metà del Cinquecento, in terra veneta, per lo più nella città lagunare, fornendo a chiese, palazzi pubblici e patrizi, e privati cittadini una messe di sculture declinate in un’ampia gamma di generi, materiali e linguaggi stilistici. Fu determinante anche la collaborazione della bottega, gestita dal Vittoria con capacità imprenditoriali; era formata da parenti stretti, come i nipoti Agostino e Virgilio, figli dello scultore vicentino Lorenzo Rubini, cognato del Vittoria, e da garzoni, allievi e assistenti. Di questi il Vittoria si servì sempre di più con il procedere dell’età e il diminuire delle forze necessarie soprattutto nello scolpire il marmo. Una vasta produzione la sua, che si colloca in un momento di snodo per le arti figurative, nel periodo di passaggio dal classicismo rinascimentale al Manierismo, fino al preludio del nascente Barocco, e che va inserita nella visione autonoma propria dell’arte veneta. Lo studioso parte dall’intento dichiarato di restituire al Vittoria il posto che merita “tra i più interessanti artefici veneziani del Rinascimento”9 Finocchi Ghersi 2020, p. 6. e ci fornisce un catalogo delle opere, eccessivamente ampliato nel passato con esemplari di non elevata qualità, frutto del suo approfondito studio dell’artista, colto attraverso i nessi con il contesto culturale e sociale veneziano.
Nato a Trento nel 1525, la sua formazione era stata collocata dal Cessi10 Cessi 1960 nella bottega trentina di Vincenzo e Gian Gerolamo Grandi, scultori provenienti da Padova abili sia della lavorazione della pietra che nella fusione del bronzo, senza però supporto documentario; Finocchi Ghersi la pone, invece, fin dall’inizio nei cantieri veneziani diretti dal Sansovino, in un ambiente più aggiornato sulle novità fiorentine e romane dei primi decenni del Cinquecento, escludendo quindi ogni traccia di provincialismo: una «sorta di formazione da autodidatta, come un aiuto tra i tanti attivi per il maestro fiorentino»11 FInocchi Ghersi 2020, p. 7. . Questa impostazione lo porta alla scelta di eliminare dal catalogo delle opere tutti i manufatti di metallo non riconducibili con certezza alla sua mano o per via documentaria – ricordiamo che all’Archivio di Stato di Venezia si conserva il preziosissimo Libro dei conti in cui lo scultore annotava minuziosamente i pagamenti ricevuti per le opere della sua bottega – o per via stilistica. L’autore si concentra quindi sull’analisi del suo rapporto con l’artista toscano, cercandone traccia nei cantieri veneziani degli anni cinquanta, nei luoghi simbolo del potere, e attribuendo al Vittoria quattro rilievi posti sui pennacchi delle arcate del piano terreno della Libreria Marciana, raffiguranti dei Fiumi – per i quali ricevette pagamenti nel 1550 dal Sansovino – affini alle figure in stucco di medesimo soggetto della Sala dei Cesari a Palazzo Thiene a Vicenza, datate all’anno successivo.
In questa fase della vita dello scultore si inserisce, infatti, l’incontro con Andrea Palladio, altra grande personalità del Rinascimento veneto, prima nel cantiere citato, e successivamente in quello di Villa Pisani a Montagnana (1554-55). In questi cantieri il Vittoria ha modo di manifestare la sua abilità come plasticatore, capacità per la quale sarà richiamato a Venezia dal Sansovino per eseguire le decorazioni della Scala d’Oro a Palazzo Ducale e della Scala della Marciana (1556-60) dopo aver superato il momento di frattura con il maestro causato dalla contrastata vicenda della commissione di una statua di Ercole per il Duca d’Este. L’autore chiarisce la predilezione dello scultore trentino, in questa fase, per una scultura che si fa «per via di porre», piuttosto che «per via di levare», sfruttando la sua particolare abilità nel modellare la materia, sia con lo stucco, in queste portentose imprese decorative, o la cera, nei modelli preparatori delle medaglie ritratto alle quali si sta contemporaneamente dedicando.
Questa straordinaria capacità si evidenzia nella partecipazione alla grande impresa decorativa di Palazzo Thiene (1551-52), momento fondamentale per la sua evoluzione artistica, che gli consente di aggiornarsi sulle principali novità dei cicli decorativi romani (Palazzi Farnese e Spada, Sala Regia in Vaticano), ben conosciute dal Palladio che fu più volte a Roma negli anni quaranta e che controllò strettamente la decorazione interna del palazzo. Ciò, insieme alla collaborazione con i pittori Anselmo Canera e Bernardino India, esponenti del moderno linguaggio manierista, gli permise di elaborare un proprio linguaggio decorativo all’antica che lo pone all’avanguardia europea. Finocchi Ghersi chiarisce come lo stile del Vittoria nelle decorazioni vicentine si distacchi da quello della bottega di Raffaello, caratterizzato dalla classica grottesca e rappresentato da Giovanni da Udine – attivo nel cantiere veneziano di Palazzo Grimani a S. Maria Formosa – poiché inverte «i rapporti tra pittura e stucchi monumentali, dando a questi ultimi un predominio plastico fino ad allora mai sperimentato in area veneta»12 Ibidem, pp. 39-40. . L’originalità e la capacità creativa del Vittoria si manifestano nei quattro ambienti al piano terra del palazzo in un crescendo che vede il passaggio dagli stucchi ancora subordinati alle pitture nella Sala di Proserpina, a una maggiore autonomia della decorazione e al forte plasticismo dei Fiumi conle loro pose serpentinate che caratterizzano la volta della Sala dei Cesari, dalla chiarezza strutturale della volta della Sala di Psiche con le Figure femminili poste ai lati delle lunette della volta a botte, fino al forte rilievo delle divinità nella Sala degli Dei; qui si coglie l’influenza di modelli più recenti, quelli della Galleria di Francesco I a Fontainebleau, con i riferimenti michelangioleschi nella versione della maniera di Parmigianino e dello Schiavone.
Dopo la risoluzione del dissidio con Sansovino a causa della mancata commissione estense, vediamo il Vittoria tornare definitivamente a Venezia nel 1553 per eseguire il suo primo incarico ufficiale come maestro indipendente: le due Cariatidi all’ingresso della Libreria Marciana, opere significative anche per il materiale, la pietra, per la prima volta usata dallo scultore in dimensioni monumentali, che lo mette in grado di dimostrare la sua abilità anche nella scultura “per via di levare” inserendolo nell’ambiente classicizzante voluto dai Procuratori veneziani. A questo punto della sua carriera il Vittoria, continuando la collaborazione con Sansovino e partecipando quindi ai cantieri più importanti della Serenissima agisce finalmente come artista alla pari. Realizza infatti dal 1556 al 1560 la decorazione delle scale monumentali di Palazzo Ducale e della Libreria Marciana creando un linguaggio innovativo per Venezia e Sansovino trova in lui il collaboratore ideale nell’esecuzione delle partiture decorative a lacunari, in stucco bianco su fondo oro, simbolo della ricchezza e della potenza di Venezia. Rimane costante il riferimento all’antico, interpretato con la sensibilità manierista che caratterizza lo stile vittoriesco di questi anni.
Alcune precisazioni dell’autore confermano la collaborazione del Vittoria con l’architetto ancora poco conosciuto Giangiacomo de’ Grigi: si tratta della Testa virile in pietra d’Istria e delle Vittorie alate collocate sui portali d’ingresso sul Canal Grande dei Palazzi Cavalli Giovanelli a S. Stae e Grimani a S. Luca indicanti, queste ultime, il persistere di una maniera ispirata ai modelli del Parmigianino.
Abbiamo già introdotto il tema della ritrattistica soffermandoci sui busti attualmente in mostra a Vicenza. La monografia analizza questa produzione mettendo in luce l’altissima qualità del ritratto di Benedetto Manzini, pievano della chiesa di S. Geminiano in piazza S. Marco ove si trovava il busto ora nella Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro (circa 1560) (Fig. 4), poiché la chiesa fu demolita per far posto all’ala napoleonica del Museo Correr.
Esso costituisce uno splendido esempio della prima produzione ritrattistica dell’autore, per il fine e analitico trattamento dei lineamenti del volto, indagati con precisione nelle rughe e nell’incisione dei capelli e della barba, e per l’acuta resa psicologica del personaggio. La vitalità di questo busto – come dei ritratti di Marcantonio Grimani a S. Sebastiano (1557) e di Francesco Duodo sempre alla Ca’ d’Oro (circa 1575-78) – è data anche dallo scatto della testa che conferisce un naturalismo che si ritrova anche nei ritratti pittorici tizianeschi (L’uomo dal guanto, Ritratto di Pietro Bembo). L’autore sottolinea anche la consonanza con la pittura del Veronese che ritrasse lo stesso Manzini nelle vesti di San Severo in una delle due ante dell’organo di S. Geminiano, ora alla Galleria Estense di Modena. Nel ritratto di Francesco Duodo l’autore coglie un aspetto dell’evoluzione del taglio del busto, in quanto questo non si presenta più curvilineo, alla maniera degli antichi, come nei busti del primo periodo, ma rettilineo, analogamente a quanto si vede nei ritratti pittorici a mezza figura. La resa delle rughe e quella virtuosistica delle barbe che quasi sempre incorniciano i volti dei potenti magistrati veneziani, lasciano trasparire il rispetto e l’onore resi agli anziani e quindi la gerontocrazia della società veneziana. Viene anche messa in luce la resa mimetica delle stoffe, in particolare delle stole in velluto alto-basso, visibile, ad esempio, nel busto di Girolamo Grimani nella chiesa di S. Giuseppe a Castello, stoffa che “per la complessità della tessitura, era destinata solo alle più alte cariche di governo, poiché il taglio del pelo del velluto, di due o più spessori diversi, rallentava molto la complessa lavorazione della pezza”13 Ibidem, p. 77., e che diviene così un segno distintivo delle classi sociali più alte, anche nell’associazione all’abbigliamento “alla romana”, evidente richiamo all’amore di questi patrizi per l’antichità. Procedendo in questa ideale galleria di ritratti si arriva a quello del doge Nicolò da Ponte (circa 1580-85), realizzato probabilmente per la sua dimora e poi posto sul monumento funebre a S. Maria della Carità, ora in Seminario Patriarcale, preludente agli sviluppi successivi della plastica barocca per il piglio espressivo del volto e il movimento del panneggio. A questo proposito Finocchi Ghersi sostiene come, nell’ «approccio alla ritrattistica in termini pittorici, per la delicatezza dei chiaroscuri ottenuti nel marmo con i sottili trapassi tra capelli, barbe, occhi, lineamenti, e i gorghi sontuosi dei preziosi abiti sovrapposti»14 Ibidem, p. 32. , il Vittoria apra la strada alla nascita del ritratto barocco, quindi ai cosiddetti ritratti parlanti che usciranno dalla mano geniale del Bernini.
Già il Ridolfi nel 164815Ridolfi 1648, p. 252. scriveva che nei ritratti il Vittoria cangiava i marmi «in spiranti figure», termine che riecheggia i berniniani «marmi vivi»16 Locuzione usata per la recente mostra di Palazzo Strozzi di cui si veda il catalogo: I marmi vivi 2009. . Per capire la novità dei ritratti scultorei vittorieschi basterebbe confrontare il suo Marino Grimani del 1593, conservato a Roma, nel Museo Nazionale di Palazzo Venezia17 Finocchi Ghersi 2020, p. 106. , con quello pressocché contemporaneo raffigurante il patrizio veneziano e cardinale Federico Cornaro di Giovanni Battista Della Porta (1591), situato sulla sua memoria nella controfacciata di S. Silvestro al Quirinale, che idealmente fa parte di una galleria di ritratti di quell’epoca in ambito romano (tra i cui autori si possono annoverare ad esempio il Valsoldo, Egidio della Riviera, il Sormani, il Bonvicino), accomunati dalla voluta inespressività e da un’indifferenza per la resa materica delle stoffe, definiti da Ioele volutamente “ineloquenti”18 Ioele 2016, pp. 85-118. .
Stante il comune riferimento alla ritrattistica classica, spiccano la vitalità e il naturalismo dei ritratti vittorieschi rispetto alla fissità e alla tendenza all’astrazione del ritratto Cornaro di Della Porta, artista la cui presenza è documentata a Venezia negli anni sessanta e settanta del Cinquecento e che dovrebbe aver visto quindi i ritratti del Vittoria. Le diversità sono dovute alla specificità e all’autonomia della scuola veneziana, sia in campo pittorico che scultoreo, e alla committenza, a Roma più legata ai rigidi protocolli della corte papale e ai canoni controriformistici che in pittura avevano prodotto ritratti come quelli di Scipione Pulzone. Finocchi Ghersi coglie bene il corrispondente riferimento del Vittoria alla ritrattistica del Tiziano, ma anche del Tintoretto e del Lotto, nella loro efficacia espressiva, riferimenti che gli hanno consentito di liberarsi “dell’immota astrazione della pratica lombardesca”, passando dalle teste ideali del primo Cinquecento a esempi più moderni di ritrattistica.
Come si accennava in precedenza, questi aspetti sollecitano riflessioni in merito ai rapporti tra le scuole veneziana e romana in questo momento di snodo tra tardo manierismo e nascente stile barocco, e all’incrociarsi della traiettoria del Vittoria con quella dell’astro nascente di Gian Lorenzo Bernini nella tomba del Cardinal Giovanni Dolfin a S. Michele in Isola, opera di collaborazione con il padre Pietro: il ritratto del cardinale (1620-1621) viene attribuito dalla critica a Gian Lorenzo e le figure delle Virtù a Pietro19 Rossi 1999, p. 175; Nicolai 2015, pp. 311-319. .
Il cardinal Dolfin nel testamento chiedeva che il monumento funebre fosse fatto nella forma di quelli di Gasparo e Tommaso Contarini, posti nella chiesa della Madonna dell’Orto, e il ritratto di Tommaso è firmato dal Vittoria20 Anche se in questa monografia Finocchi Ghersi non lo riconosce come sua opera. .
La significativa questione dell’influenza del Vittoria sulla ritrattistica berniniana, già sollevata da Valentino Martinelli21 Martinelli 1994 sia relativamente al ritratto Dolfin, sia ai ritratti di Agostino e Pietro Valier provenienti dalla distrutta chiesa veneziana di S. Maria delle Grazie (ora conservati alla Ca’ d’Oro) e più recentemente discussa dalla Zanuso22 Gian Lorenzo Bernini 1999, pp. 319-321. e da Bacchi23I marmi vivi, 2009, pp. 30-31, 40-41., è argomento che meriterebbe ulteriori approfondimenti.
Il volume di Finocchi Ghersi prendendo in esame la statuaria a tutto tondo, indica come prima opera significativa del Vittoria in questo genere il piccolo San Giovanni Battista in marmo, del 1551, che lo scultore tenne con sé fino alla morte, lasciandolo alle monache di S. Zaccaria, e tuttora conservato in questa chiesa su un’acquasantiera. È un’immagine ricca di spiritualità e di fascino “conferitogli da un’eleganza stilistica raffinata, debitrice del modello parmigianinesco”, pur se sostanziata da una base sansoviniana, frutto della formazione avvenuta a Venezia. Vengono quindi analizzate le sculture eseguite negli anni sessanta in diverse chiese veneziane, su incarico delle eminenti famiglie patrizie già citate a proposito dei ritratti. Le statue marmoree di San Marco e Sant’Antonio Abate nella Cappella Grimani a S. Sebastiano e quelle immediatamente successive raffiguranti i Santi Rocco, Antonio Abate e Sebastiano nella cappella Montefeltro a S. Francesco della Vigna, di grandezza maggiore delle precedenti e sempre in pietra, dimostrano la capacità ormai pienamente raggiunta nella scultura “per via di levare”, nell’accuratezza esecutiva di altissimo livello e nella compiuta assimilazione del modello michelangiolesco. Capolavoro dell’artista viene considerato il marmoreo San Girolamo per la cappella Zane nella Basilica dei Frari, in cui sono ancora presenti il moto serpentinato michelangiolesco e una forte “maestosità morale”. Anteriore ad esso, secondo Finocchi Ghersi, è la statua di analogo soggetto oggi nella Basilica dei Ss. Giovanni e Paolo, proveniente dalla Scuola della Giustizia presso S. Fantin, nella quale emergono un maggior controllo emotivo e una sofferta intima religiosità che l’avvicinano al San Girolamo del Tiziano a Brera. Eseguite in stucco sono invece le figure di San Pietro e Sant’Andrea per le nicchie nella stessa cappella Zane e le figure degli Evangelisti nella controfacciata di S. Giorgio Maggiore, opere che nella loro enfasi espressiva e nella fluidità del materiale si possono considerare anticipatrici del barocco24 Nel caso degli Evangelisti questo si rivela soprattutto nei bozzetti preparatori, di migliore qualità delle opere, poiché probabilmente autografi. , come le sei grandi statue di Profeti e Sibille per la Cappella del Rosario a S. Zanipolo per la morbidezza della modellazione. A proposito di queste opere, si può condividere il collegamento con Camillo Mariani, artista che farà da tramite tra questi modelli in terra veneta – si pensi al suo ciclo di Piombino Dese con le statue Cornaro in relazione con quelle delle Stagioni del Vittoria a Villa Pisani a Montagnana – e l’ambiente romano dove realizzerà le statue di S. Bernardo alle Terme. La statua raffigurante l’allegoria di Venezia, eseguita negli anni ottanta dalla bottega del Vittoria (Fig. 5), si affaccia da una nicchia di Palazzo Ducale verso la Piazzetta dialogando idealmente con la statua di Proserpina del 1589 del Mariani (Fig. 6) sul coronamento della Libreria Marciana.
Le statue sono apparentate dalla sinuosità della posa e dalla morbidezza del modellato e sembrano alludere così a un passaggio di testimone tra l’anziano artista trentino e il giovane scultore che di lì a poco (nel 1597) si sarebbe trasferito a Roma portando lì un nuovo impulso che influirà sulla formazione del Bernini.
Alla fase stilistica più avanzata del Vittoria appartengono le statue bronzee dei Santi Daniele e Caterina per l’altare dei Marzeri a S. Zulian, quelle, sempre in bronzo, di San Giovanni Evangelista e della Madonna Addolorata per l’altare del Crocefisso già in S. Fantin, ora ai Ss. Giovanni e Paolo, e quelle marmoree dei Santi Sebastiano e Rocco per l’altare dei Luganegheri a S. Salvador, distanti ormai dalla temperie manierista nelle loro pose composte e al tempo stesso espressive. Passando al catalogo delle opere, un gruppo con la sua specificità è costituito dai ritratti, di cui si è già parlato; Finocchi Ghersi pone in discussione l’autografia e talvolta anche l’identificazione dei modelli di alcuni busti, introducendo così elementi di novità nel dibattito critico. A questo proposito, è necessario premettere, che, come già accadeva nelle botteghe del Quattrocento e come avverrà in seguito in ambiente berniniano, la realizzazione di un’opera avveniva talvolta con l’apporto degli allievi, più o meno ampio a seconda di diversi fattori, dal committente, all’entità del compenso pattuito, all’età del titolare della bottega che influiva sulla forza fisica necessaria per scolpire il marmo. Infatti «lo standard qualitativo delle sue sculture non è sempre omogeneo e talvolta è del tutto deludente. Tuttavia firmandole, il V. se ne assumeva autorevolmente la paternità» 25 Bacchi nella biografia sul Vittoria in La scultura a Venezia 2000, p. 803. . È un’operazione non facile distinguere le opere interamente autografe – in particolar modo i ritratti – sia per la scarsa visibilità nel sito ove a volte sono collocate, sia perché la stessa fotografia non permette la totale leggibilità dell’opera, da quelle in cui è intervenuta la mano di un assistente in modo più o meno incisivo, anche quando l’opera è firmata. Rispetto al catalogo dei ritratti precedentemente pubblicato da Martin, quelli la cui autografia viene messa in discussione da Finocchi Ghersi sono diversi: alcuni vengono assegnati alla bottega, nell’apposita sezione del catalogo, di altri, invece, non viene accettata in toto l’attribuzione al Vittoria. Oltre al ritratto di Giambattista Ferretti del Louvre, di cui si è già parlato, il ritratto di Tommaso Contarini, firmato e posto sulla tomba nella chiesa della Madonna dell’Orto, viene giudicato una copia sette-ottocentesca da un originale del Vittoria. Finocchi Ghersi trova questa copia molto somigliante al cosiddetto Pietro Zen del Bode Museum di Berlino26 Finocchi Ghersi 2020, p. 119. , anche se, a mio giudizio, le somiglianze non sono così stringenti da permettere di identificare nell’opera berlinese il ritratto originale di Tommaso Contarini. Inoltre l’autore vede nel ritratto di Priamo da Lezze nella chiesa veneziana dei Gesuiti una vicinanza ai caratteri della produzione tarda del Vittoria e suppone che l’originale, citato nel 1566 dal Vasari, possa essere andato perduto e che l’esemplare in situ sia stato realizzato da altri tra il 1576 e il 1581, quando fu messo in opera il monumento funebre27 Ibidem, p. 118. .
Per quanto riguarda la restante produzione del Vittoria, Finocchi Ghersi non accetta l’attribuzione della cosiddetta Cleopatra del Bayerisches Nationalmuseum di Monaco28 Ibidem, p. 7. , del San Giovanni Battista del Duomo di Treviso (firmato), dei due Telamoni, trasformati in Atlanti, conservati a Ca’ Rezzonico (firmati) e, come aveva già espresso nei suoi contributi del 1998 e del 2001, della Pala Fugger29 Ibidem, p. 123. , dei rilievi della Nascita della Vergine, e dei Santi Daniele e Caterina sull’altare dei Marzeri a S. Zulian (derivanti da un precedente altare della confraternita situato nella stessa chiesa). Respinge inoltre l’attribuzione degli stucchi di Villa Barbaro a Maser, come quella dell’altare con San Giacomo a S. Giacomo a Rialto.
In conclusione si potrebbe suggerire, in una eventuale futura edizione, di completare le informazioni contenute nelle schede delle opere con l’indicazione per tutte del materiale usato, e di esplicitare nel catalogo il motivo per cui un’opera non venga considerata autografa ma di bottega. Le opere inserite nella sezione dei “prodotti” di bottega, che secondo l’autore non sono tout court del Vittoria, come i ritratti di Tommaso Contarini e di Priamo da Lezze, e il Ritratto femminile a Vienna, potrebbero, inoltre, figurare in un elenco a parte e la bibliografia dovrebbe comprendere tutti gli scritti citati nel testo o nelle note. Sfugge anche il motivo che ha dettato la scelta della scultura in copertina, non rappresentativa della qualità raggiunta dalle migliori opere dell’artista, tant’è che nel catalogo viene assegnata alla produzione della bottega. Queste poche notazioni vogliono comunque essere solo un suggerimento volto a perfezionare un testo già di per sé completo ed esaustivo e nulla tolgono al merito di questa pubblicazione con la quale l’autore fa il punto sulla situazione critica e mira a diffondere la conoscenza di questo grande protagonista dell’arte del secondo Cinquecento.
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