I Maestri: intervista ad Antonio Paolucci
CLAUDIO SAGLIOCCO
Partecipando al cordoglio per la scomparsa di Antonio Paolucci (1939-2024), riproponiamo l’intervista che il grande storico dell’arte diede a Claudio Sagliocco, nel maggio del 2022.
“Il male vero del nostro tempo è che non ci sono più i grandi maestri”
Così gridava il matto Domenico dal dorso del Marco Aurelio, in una piazza del Campidoglio sospesa e silente, nell’iconica scena del film Nostalghia (Tarkovskij, 1983).
La figura del maestro è andata scomparendo, o forse sta cambiando, insieme all’idea – radicata nell’immaginario collettivo – di una figura arcaica, misteriosa e incantatrice, capace di formare individui indirizzandoli verso un campo di studi e un metodo. Interviste, la nuova sezione di “Storia dell’arte” in tempo reale, apre un dialogo con studiosi e studiose, intellettuali che si sono contraddistinti negli anni per le loro ricerche e le loro attività, configurandosi come punti di riferimento anche per le generazioni successive.
La prima di queste interviste è con Antonio Paolucci, che entra certamente nel novero dei maestri, per il suo lavoro instancabile da Soprintendente, i suoi studi e le numerose mostre curate, la continua attività divulgativa e la brillante direzione di importanti istituzioni come i Musei Vaticani e il Ministero dei Beni Culturali.
Lo incontriamo in un tiepido pomeriggio di inizio primavera – aprile 2022 – nella sua casa fiorentina a pochi passi dall’Arno.
L’intervista:
Chi è Antonio Paolucci?
Sono figlio di antiquari, faccio questo mestiere perché vengo dal mestiere. Ho conosciuto l’odore delle cose antiche fin da quando ero piccolo. Non avrei potuto immaginare una vita diversa per me, viste le mie origini e il mio imprinting familiare. O avrei fatto l’antiquario o lo storico dell’arte, o guardia o ladro insomma.
Che importanza ha per lei Rimini, sua città natale?
Per me Rimini significa il Tempio Malatestiano, le testimonianze romane, Giovanni da Rimini, il Museo di Rimini con le croci giottesche; le prime formazioni visive sono nate lì, di fronte agli affreschi di Giovanni da Rimini nella chiesa di Sant’Agostino, che era la mia parrocchia. E la bottega di mio padre si trovava proprio là vicino, e la frequentavo molto da bambino. Vi ho visto passare varie cose, alcune sono rimaste qui nella mia casa di ora.
Si ricorda il primo oggetto artistico che l’ha colpita profondamente?
È stato un quadro di cui non ricordo più l’autore, doveva essere un bolognese del Seicento, una cosa alla Guido Reni. Un quadro che raffigurava una Maddalena, è stato a lungo nella bottega di mio padre. Ricordo che mi aveva affascinato questa donna bionda, tenera. Chissà che fine ha fatto quel quadro.
Veniamo alla sua formazione accademica: lei è stato allievo di Longhi?
Sì io mi sono laureato con Roberto Longhi nel luglio del 1964 a Firenze. Sono stato l’ultimo dei laureati con Longhi. Scrissi una tesi sugli Zaganelli da Cotignola, due pittori dell’ultimo Quattrocento emiliano-ferrarese.
Che ruolo ha avuto per lei Longhi? Era davvero “Sguainato come una spada” come diceva di lui Pasolini?
Longhi era veramente come viene descritto e come ci si immagina che fosse: un vero incantatore di serpenti, seduttivo se mai ce ne furono.
Poi però ho intrapreso la carriera dell’amministrazione dei Beni Culturali. Ho cominciato subito facendo il funzionario storico dell’arte prima a Firenze, poi Soprintendente a Venezia, poi a Mantova, poi di nuovo a Firenze dove sono stato direttore dell’Opificio delle Pietre Dure e dei laboratori di restauro fiorentini e a seguire fino ad arrivare a dirigere per un breve periodo il Ministero dei Beni Culturali.
Come mai ha scelto questa strada?
Fin da subito mi sono trovato di fronte ad un bivio: o facevo il mercante, l’antiquario, come mio padre e come mio nonno, oppure mi mettevo a studiare quelle cose lì e a proteggerle, e ho scelto questa strada qui, quella del tutore del patrimonio.
Delle varie città dove è stato soprintendente quale è stata la più difficile?
Firenze di gran lunga.
E quella che l’ha affascinata di più?
Venezia resta per me indimenticabile. Ero molto giovane all’epoca, è stata la mia prima nomina, sono stati tre anni veramente straordinari.
Lei è stato anche Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana; l’anno scorso è stato il centenario dalla nascita di Antonio Cederna, strenuo difensore del paesaggio italiano e in particolare dell’Appia Antica, quale pensa sia oggi lo stato del nostro paesaggio?
Bisogna essere oggettivi: la Toscana, tra le regioni italiane, è quella che ha saputo conservare meglio di altre quel bene assoluto che è il Paesaggio, l’ambiente. Se io penso al Veneto, la bellezza del paesaggio veneto, per conoscerlo bisogna guardare i quadri di Giovanni Bellini. E pensare che fino agli anni Cinquanta, fino a dopo l’ultima guerra, il Veneto che si attraversava in macchina o in treno era ancora come lo descriveva il Giambellino sullo sfondo dei suoi quadri. Poi tutto è stato devastato, dai capannoni, dalle superstrade, dalle conurbazioni. Io dico sempre che il più grande danno che ha avuto l’Italia dei nostri giorni è stata la devastazione del suo paesaggio. Ormai il paesaggio italiano sopravvive solo per lacerti disarticolati. Questa è la perdita più grave che abbiamo avuto, più del danno delle singole opere d’arte, è l’insieme di queste nel paesaggio.
Quello che lei ha definito il Museo diffuso.
Si era proprio il miracolo Italiano, l’unico paese in cui arte e natura erano armoniosamente coniugati. E questo lo si vedeva ancora fino a settanta anni fa attraversando l’Italia in macchina.
Perché secondo lei in Toscana si è preservato maggiormente il paesaggio?
Credo per una sensibilità diffusa maggiore. Ha voluto dir molto che Giorgio Vasari fosse nato qui, ad Arezzo; cioè la consapevolezza di una identità speciale ha giocato nella sensibilità di amministratori, di sindaci, di responsabili delle comunità locali. Le differenze si vedono se confrontiamo la realtà toscana con quella di altre regioni vicine.
Dopo il tragico terremoto dell’Umbria e delle Marche del 1997, lei è stato nominato Commissario straordinario del Governo per il restauro della Basilica di San Francesco ad Assisi. Come è avvenuto quello storico restauro?
Io dico sempre che è stato san Francesco, non io e non il Ministero dei Beni Culturali, ma il santo che ha voluto salvare la sua chiesa e la sua città. Devo dire che siamo riusciti a recuperare, dopo i danni del terremoto, il San Francesco d’Assisi e tutta la parte che minacciava di crollare, addirittura in anticipo sui tempi previsti, spendendo meno dei soldi che erano stati stanziati, cosa che in Italia non succede mai.
Ricordo un video di lei che accompagna un claudicante Federico Zeri in Basilica a restauri compiuti…
Sì, claudicante, malefico e sulfureo come sempre!
Lo conosceva bene? Ce lo racconti.
Sì eccome. Era come l’ho definito appunto, la cattiveria fatta persona, unita ad un’intelligenza prensile e fulminea. Due cose insieme che facevano la singolarità dell’uomo. È morto troppo presto purtroppo, in fondo non era vecchissimo.
«Adesso che Federico Zeri è morto non abbiamo più un antagonista. Zeri era severissimo nel giudicarci perché nessuno come lui conosceva il patrimonio artistico italiano. … Per un uomo come lui le cose davvero importanti erano nell’ordine: il catalogo del patrimonio, la sistemazione dei depositi dei musei, la pubblicazione dei repertori territoriali. I soprintendenti (io fra gli altri) troppo spesso si occupano di diverse e più effimere cose: del turismo culturale, dei musei aperti giorno e notte, delle mostre di successo, dei prestiti all’estero. È la logica dei tempi che ci obbliga a questo. Zeri non lo capiva, o se anche lo capiva, si arrabbiava lo stesso».
Antonio Paolucci sulle pagine de La Nazione il giorno dopo la scomparsa di Federico Zeri, avvenuta il 5 ottobre 1998.
Longhi o Zeri?
Longhi sicuramente mi ha dato di più, l’imprinting decisivo è stato il suo ovviamente, all’epoca della mia laurea con lui avevo ventiquattro anni. Zeri invece quando l’ho conosciuto ero già grande, e l’ho frequentato molto negli ultimi anni della sua vita, soprattutto quando ero ad Assisi e l’ho accompagnato più volte sui ponteggi del San Francesco. Sono stato anche a casa sua a Mentana.
Veniamo al suo ruolo di Direttore dei Musei Vaticani, prestigiosa carica che ha ricoperto per 9 anni, dal 2007 al 2016. Quali sono state le grandi sfide che ha dovuto affrontare durante la sua direzione?
Sicuramente la gestione dei flussi, cresciuti molto negli anni in maniera esponenziale e progressiva, che comporta problemi molto gravi, che vanno quindi governati e disciplinati. La disciplina della pressione antropica, come si dice, cosa più facile da enunciare che da governare. Da una parte tutti noi vorremmo che crescesse il numero dei visitatori della Cappella Sistina e degli Uffizi e dall’altra ci rendiamo conto che la crescita in progressione infinita è una contraddizione con il problema della conservazione. Mediare tra questi due estremi è il compito del direttore di qualunque museo al giorno d’oggi. Un’operazione importante e delicata è stata inoltre la climatizzazione della Cappella Sistina, ultima operazione dopo il grande restauro compiuto da Colalucci e dalla sua equipe. Abbiamo portato la temperatura e l’umidità di quel luogo ad un livello immodificato e immodificabile, ottimale per la conservazione degli affreschi. Più si cresce e più ci si rende conto nel nostro mestiere che il restauro è un’operazione politica soprattutto. Il problema non è tanto di fare un bel restauro o meno, quanto di tutelare l’insieme, il contesto, l’ambiente, e preservarlo nel tempo, in modo che il patrimonio artistico possa essere in quell’ambiente custodito e conservato.
Questo è il vero problema, come ci ha insegnato Giovanni Urbani con la sua teoria del restauro; il restauro come intervento politico più che tecnico-operativo.
Si sta parlando di una prossima riapertura del Corridoio vasariano; oltre che sulle tempistiche si discute sul prezzo del biglietto che dovrebbe essere piuttosto elevato (45 euro). Cosa ne pensa? Lei è per un modello inglese della cultura, quindi accessibile a tutti e gratuita, o per una visione più imprenditoriale a fini di lucro?
Io sono dell’idea che non bisognerebbe pagare per entrare nei musei come non si paga per entrare nelle biblioteche, è una scelta politica che ha tutta la mia adesione, da sempre. Scelta che però sembra in controtendenza con lo spirito dei tempi, dove tutto si paga, tutto ha un costo e tutto deve essere prezzato.
Fra i suoi numerosi meriti, lei è anche un ottimo divulgatore, narratore o se vogliamo un affabulatore, come diceva di Longhi. Come è riuscito a conciliare questa sua attività con quella di ricerca, studio e il lavoro da Soprintendente?
Quando si ama profondamente quello di cui si parla credo che sia molto semplice. È importante far sì che gli altri partecipino della tua emozione. Tutto qua, non ho trucchi particolari.
Quali sono gli strumenti imprescindibili per uno storico dell’arte?
Gli occhi. L’occhio destro e l’occhio sinistro, come diceva Longhi.
Che consigli dà ad un giovane che voglia intraprendere la sua carriera?
Di guardare, guardare, girare, consumarsi gli occhi dentro le chiese, dentro i musei, credo che sia il consiglio migliore.
Qual è il libro che ha scritto al quale è più affezionato?
Il laboratorio del restauro a Firenze (edito nel 1986 ndr) è un libro sparito ormai dalla circolazione che racconta la storia dei restauri in questa città dagli anni Trenta fino all’alluvione del 1966.
Due consigli di lettura invece? Uno storico artistico e uno letterario.
Per il consiglio di letteratura direi Il maestro e Margherita di Bulgakov. Leggetelo e capirete che grande popolo e che grande cultura è quella russa (purtroppo offuscata dal momento critico che stiamo vivendo).
Per la storia dell’arte prenderei un libro di Federico Zeri: Due dipinti, la filologia e un nome. Il maestro delle tavole Barberini. Per me è stato fondamentale quando l’ho letto, e sono sicuro che lo sarebbe anche per un ragazzo oggi.