Vincenzo Giustiniani Scritti editi e inediti
Vincenzo Giustiniani Scritti editi e inediti, a cura di Silvia Danesi Squarzina e Luisa Capoduro, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana 2021, Studi e testi 548, pp. 306, con indice dei nomi, 1 ill.
Con la pubblicazione di questa fonte secentesca le autrici hanno voluto mettere a disposizione degli storici dell’arte, dell’antiquaria, della critica, delle scienze naturali, della storia, della sociologia, della musica e di molte altre discipline i Discorsi di Vincenzo Giustiniani, gli inediti di cui si dà la prima trascrizione integrale, e una nuova edizione degli scritti già noti, non circoscritti ai conoscitori di storia dell’arte e del collezionismo del ‘600, il tutto secondo criteri filologici rigorosi e coerenti. Pubblicata nella prestigiosa collana Studi e Testi della Biblioteca Apostolica Vaticana, grazie alla disponibilità anche online[1] la raccolta sta già avendo una ampia circolazione, e certamente tra i lettori ci saranno molti studiosi delle specifiche discipline toccate dal Giustiniani. Il volume è composto per un terzo dai saggi delle due curatrici, ciascuno con bibliografia aggiornata, e per due terzi dai Discorsi, completati dalla bibliografia specifica e da un indice dei nomi che consente verifiche puntuali e incrociate, permettendo di scoprire nomi di artisti nell’orbita della famiglia e di personaggi dell’epoca, incrementando la conoscenza di quello che si può definire un ‘mondo Giustiniani’.
Il volume continua e completa le ricerche condotte e dirette da Silvia Danesi Squarzina, Professore Ordinario ora Emerito di Storia dell’arte Moderna della Sapienza, iniziate nella seconda metà degli anni ’90, con una serie di articoli tra cui ha maggior rilievo la pubblicazione nel 1997-1998[2] degli inventari inediti del cardinale Benedetto, profilandone la figura sino ad allora poco indagata. Le ricerche su entrambi i fratelli, Vincenzo e Benedetto, hanno portato alla realizzazione della mostra internazionale del 2001[3]: buona parte della raccolta dei dipinti (cinque tele di Caravaggio delle quindici originarie) è stata riportata nella sua sede originaria, Palazzo Giustiniani, oggi sede del Senato. La ricostruzione della collezione di quadri Giustiniani ha avuto uno straordinario successo, replicato nella seconda venue all’Altesmuseum di Berlino. Nel 2003[4] la stessa studiosa ha pubblicato tutti gli inventari della famiglia sino alla dispersione ottocentesca e tutti i documenti noti, con l’identificazione di molti dipinti fino ad allora sconosciuti, in un volume pubblicato da Einaudi in tre tomi che ha vinto un premio dei Lincei.
Nell’ambito di tali ricerche è stato rinvenuto il manoscritto Vat. lat. 12670 della Biblioteca Vaticana contenente quindici Discorsi di Vincenzo Giustiniani, ossia i sette già noti (Sopra il modo di far viaggi, Sopra li varij modi della pittura, Sopra la scoltura, Sopra le fabriche, Sopra la musica, Dialogo tra Renzo romano e Aniello napolitano, Sopra la caccia), e otto inediti (Avvertimenti ad uno che viene alla corte di Roma, Sopra alcune curiosità delle antichità di Roma, Sopra il modo di tener conversatione, Sopra il giuoco del Pallamaglio, Sopra le nuove mura da farsi in Genova, Sopra il male della Podagra, Sopra li cavalli, Sopra li cani), più una Lettera di Bassanese Passatempo finale.
Il manoscritto vaticano proviene dalla Biblioteca del Seminario di Albano, cui l’aveva lasciato il Cardinale Giacomo Giustiniani, ultimo erede in linea maschile della famiglia, ed era passato inosservato perché adespoto (reca infatti l’intestazione «Varii Discorsi di Bassanese Passatempo»). Prima della scoperta del Vat. lat. 12670 i Discorsi Giustiniani ci erano tramandati da due manoscritti[5], il ms Ott. lat. 2365 della Biblioteca Vaticana, appartenuto a Teodoro Amayden, e il ms Orsucci 48 dell’Archivio di Stato di Lucca; da essi sono state tratte le edizioni precedenti, di Michele Giustiniani (1675), e Bottari (1768 e 1822) per alcuni testi, da cui la riedizione di Anna Banti (1981), ma si era intuita da alcuni cenni l’esistenza di altri Discorsi[6]. Nel volume si segnalano, per ciascuno dei Discorsi già noti, la presenza o meno nei manoscritti suddetti, nonché le più significative varianti testuali presenti nei vari manoscritti e nelle edizioni.
Il ritrovamento del manoscritto Vat. lat. 12670 consente alle curatrici di presentare una prima edizione (dopo quattrocento anni) degli inediti, ma anche una nuova edizione dei Discorsi già editi, in quanto il testo del manoscritto vaticano fu rivisto dall’autore; così, in alcuni casi significativi, consente di emendare lezioni corrotte e colmare lacune presenti nella tradizione sinora conosciuta[7]. Silvia Danesi Squarzina inoltre conferma e mette meglio a fuoco le datazioni già dedotte nel 2001 e 2003 dai Discorsi allora noti.
Come è acutamente scritto nel primo saggio, i Discorsi «ci fanno penetrare in un mondo non solo di immagini ma anche di idee …temi di una élitaria conversazione rivolta ad una cerchia irripetibile», di cui possiamo intuire qualche nome basandoci sui destinatari, Michele Peretti principe di Venafro, il medico Giovan Giacomo Baldini, Camillo Massimo[8] e Teodoro Amayden[9]. Nello specifico dei testi, si pone un focus sugli scritti quale frutto di conversazioni, come evocato anche nel Discorso sull’arte della conversazione, che all’inizio descrive il discorrere di qualche «operatione virtuosa», quasi un’eco delle «virtuose adunanze», in una accademia privata[10] simile alle molte, frequenti e ben frequentate, a Roma e in altre città italiane. Il testo ricerca una dimensione teorica condivisa ma anche un inquadramento della vita contemporanea, artistica e non, tra corte di Roma e attività aristocratiche in città e in campagna, tra socialità e scambio di idee; da elementi intrinseci le autrici hanno stabilito una genesi dei testi in diversi tempi (sostanzialmente negli anni ’20, con una eccezione) e per diversi motivi, poco incasellabili in generi letterari consueti.
Viene posta nuova luce sulla personalità di Vincenzo Giustiniani (fig. 1) ancor più come singolare uomo di cultura come già segnalato nel profilo dell’amico Amayden, ed emergono nuovi dati sulla sua biografia, ad esempio la traccia di un secondo viaggio nelle Fiandre nel 1609 non noto sinora, messo in evidenza da Silvia Danesi Squarzina: nel lungo saggio introduttivo su quella che chiama «una enciclopedia del vivere» di uno «straordinario poligrafo» la studiosa sottolinea il significato imprescindibile dell’intestazione ‘Discorso’ (ad esempio nell’abbandono nel titolo del termine ‘trattato’ del viaggiare a favore di ‘discorso’), una stesura non libresca per una audience da raccogliere nell’«Academie Apartimenten seines Palaz» come scrive Sandrart[11], e che l’autrice suggerisce anche riferibile a Bassano, dove una grande sala al pianterreno ha le caratteristiche per una sala da teatro privata; su un appartamento per le conversazioni nel corrispondente Discorso Vincenzo Giustiniani dà consigli al destinatario primo dei suoi scritti, Camillo Massimo. Nelle accademie del ‘600[12] si coltivava la «passione per conversazione erudita, antiquaria, scienze, teatro»: in Vincenzo Giustiniani, che ha «libertà di percorrere tutti campi del vivere e del sapere», si accenna anche ad una discussione sulla politica nel testo sulla conversazione, segno, come scrive la studiosa, di una «società laica e libertina, nel senso del libero spaziare del meditare artistico…motivi di incontro e di dialogo assai più sostanziosi».
Nei Discorsi sulla pittura e sulla scultura si dispiegano tutte le conoscenze del Marchese, pervase dall’ hic et nunc ma anche da riferimenti storici. Nel Discorso sopra li vari modj della pittura riesaminato dalla Danesi Squarzina è evidente il salto di scrittura, da lunghe frasi e con digressioni e aneddoti tipici degli altri Discorsi a un linguaggio asciutto e con riferimenti dettagliati, rivolti tuttavia ad esempio verso un artista come Zuccari[13] della generazione antecedente (ma si comprende meglio se si data il testo, come proposto ora, al 1612, ossia tre anni dopo la scomparsa del pittore); però in certo modo Vincenzo ci priva invece di ulteriori preziose informazioni («avaro nel fare nomi», scrive Silvia Danesi Squarzina, che elenca tutti gli artisti, presenti nella collezione, con qualche correzione), avaro anche quando accenna al successo di alcuni tipi di pittori in una delle categorie professionali enucleate nel Discorso sulla corte di Roma. Nel Discorso sulla pittura la struttura che si vuole dare è essenziale, non secondo tradizione per biografie e periodizzazioni, senza ornamenti narrativi, e questo si spiega ora meglio con la data anticipata proposta, come frutto di un periodo di vita attiva e un sistema applicativo immediato, e non del ‘passatempo’ del decennio successivo con rimembranze e digressioni negli altri Discorsi.
Venendo agli aspetti più strettamente storico-artistici, Silvia Danesi Squarzina precisa per i vari riferimenti interni un gran numero di personaggi, episodi, opere e date, che si aggiungono a quelle già fissate dalla stessa studiosa per i testi noti[14]: in particolare, come appena accennato, per il Discorso sopra li vari modj della pittura si porta la data a poco dopo il 1612[15], proponendo di riconoscere nel «N. Fiamengo»[16] Nicolas Régnier registrato negli Stati delle anime come Renere in quell’anno insieme a monsignor Claudio Venceio di Lorena, personaggio sinora poco indagato ma invece attivissimo a S. Luigi dei Francesi e anche nella cappella Contarelli[17], e nei pagamenti a Caravaggio. Qui agiscono, forse segretamente per far ottenere la commissione al Merisi, anche i fratelli Giustiniani legati anche alla corona di Francia: quando Baglione scrive che Merisi ottiene la commissione «per opera del suo cardinale»[18] potrebbe alludere, come scrive la studiosa, non necessariamente a Del Monte ma anche a Benedetto Giustiniani (fig. 2), vice protettore della Corona di Francia, e destinatario di lettere molto personali e grate di Enrico IV[19]. La gestione dei beni Contarelli è affidata alla congregazione, poi presieduta da Del Monte, della Fabbrica di san Pietro, di cui era membro influente Benedetto, così più si approfondisce il ruolo dei Giustiniani per la cappella Contarelli più si comprende perché a loro sia andata la prima versione del San Matteo e l’angelo, dove, come aveva intuito Lavin, la testa del santo è ripresa dal Socrate Giustiniani. La figura di Venceio che, come qui suggerito, può aver introdotto il pittore presso il Marchese, e la presenza a Roma di Régnier prima di quanto sinora supposto, spiega meglio alcune cifre stilistiche del pittore di Maubeuge nettamente caravaggesche prima con «tonalità bruno-rossastre» attorno alla data dedotta e poi «toni più freddi» nel secondo soggiorno di fine decennio; come scrive Silvia Danesi Squarzina, all’inizio del secondo decennio i Giustiniani creano «un piccolo gruppo di fedelissimi», di cui fanno parte oltre a Nicolas anche Ribera e i caravaggisti di Utrecht, sin quando dura la loro permanenza a Roma, prima della formazione di un nuovo gruppo internazionale all’inizio degli anni ’30 per l’impresa della Galleria Giustiniana.
Guardando anche alle opere successive di Régnier, con soggetti assai colti, e all’Autoritratto mentre dipinge il ritratto di Giustiniani[20], si intuisce l’effetto della vicinanza precoce ad un intellettuale come Vincenzo, di cui giustamente si colgono «gli obiettivi maieutici» in un «laboratorio di pittori domestici»[21], tra i quali viene anche suggerito, con una serie di indizi convergenti, Prospero Orsi come decoratore nelle sale del palazzo di famiglia. Questo artista, come pure Anton van Os (ossia Ossino qui correttamente individuato rispetto alle precedenti edizioni) era presente insieme con altri attivi per i Giustiniani e con Caravaggio alla cerimonia delle Quarant’ore dei Virtuosi al Pantheon, ad una data ancora discussa e con un centinaio di colleghi: su questo avvenimento, oggi particolarmente dibattuto, si aggiungono nel saggio (cui rinvio per la bibliografia aggiornata) acute osservazioni.
Nel Discorso sopra la scoltura (post 1621, già noto) Vincenzo Giustiniani si riferisce all’interpretazione della scultura[22] ripresa liberamente da Cellini: «molti aspetti e quasi infiniti, come sono tutti li corpi naturali terminanti con figura quasi sferica», insieme a consigli sul disegno e sulla necessità di un buon mecenate, passando per il paragone consueto tra pittura e scultura, che pone quasi come una questione di gusto[23], e in questo modo capovolge la disputa che non riguarderebbe gli artisti ma i collezionisti; a mio parere inoltre qui e in altri Discorsi analizzando aspetti materiali Vincenzo considera in senso aristotelico non tanto la techne quanto la praxis delle arti. Giustamente Silvia Danesi Squarzina ritiene una personalissima «sprezzatura…l’assoluto riserbo… nell’esprimere il possesso di opere della sua collezione», in particolare a proposito di Michelangelo, con l’attribuzione a Buonarroti di un fantomatico mortaio «dissimulando» il suo possesso del Cristo risorto: come scrive Rudolf Preimesberger[24], che pure analizza grazia e sprezzatura, rarità e magnificenza, Vincenzo anticipa le critiche di Bernini – e loda solo, come nota Luisa Capoduro, una sua statua antica, la Pallade, nel Discorso sulle antichità; mentre l’assenza di riproduzioni di opere di Merisi nella Galleria Giustiniana, al netto del possibile irrealizzato terzo volume dei dipinti, viene qui spiegata sagacemente con la svolta classicista degli anni ‘30. Giustiniani mescola la suddivisione di temi con uno stile più narrativo, e aggiunge il rimando filosofico che non manca quasi mai nei testi, alla simpatia naturale (qui è citato Fracastoro[25]) ossia l’«inclinazione» che ben si rispecchia nella collezione, arricchita man mano di quadri e sculture aventi a soggetto filosofi (fig. 3): Claudio Strinati[26] scriveva che «la componente filosofica è come mascherata e sottovalutata dallo scrittore stesso» in quanto «filosofo dialettico anche se non tanto sistematico», ed è un cenno assente solo per la pittura, che ora si spiegherebbe per l’essere quello sulla pittura non solo il primo Discorso scritto ma piuttosto precoce, quindi meno meditativo, latamente educativo (come intuito da Danesi Squarzina).
Una ‘regolata mescolanza’ potremmo dire di attenzione etico-filosofica unita a quella pratica è messa in luce nel primo Discorso dedicato ai viaggi, dove la curatrice nota la profondità del paragone tra vita e viaggio, e anche la «centralità della reminiscenza», nonché tra le molte considerazioni l’attenzione a giardini e macchine per fontane, pitture e statue, in questo ordine, il che non sorprende considerata la cura di Vincenzo verso i giardini delle sue dimore e la rilevanza architettonica che essi avevano a Roma come a Bassano Romano (figg. 4-5).
Particolarmente ricco di osservazioni storico-sociologiche e non solo di costume è l’inedito Discorso sulla corte di Roma, di cui Silvia Danesi Squarzina evidenzia le notazioni critiche, soprattutto all’inizio, nelle distinzioni tra curiali e cittadini e per altri gruppi sociali, che mostrano un vero dinamismo nella variazione della loro condizione, e anche sulla stagionalità di alcuni impieghi; è il segno di una attenzione socioeconomica, potremmo dire, che è una della delle qualità intellettuali dell’autore, memore delle fortune derivate dalle capacità imprenditoriali dei capostipiti e anche della sua attività di banchiere, come depositario della Camera Apostolica, mentre il fratello era Tesoriere Generale. Come osserva la studiosa, al Montalto nominato cardinale nel 1585 era stato destinato un libello di avvertimenti messo all’Indice, e quindi il Discorso di Vincenzo costituisce un contraltare equilibrato e con osservazioni anche sulle classi più umili; anche nel Discorso sulla conversazione si inseriscono moniti sui rischi del gioco non moralistici ma austeri, e l’autrice mette il tutto in collegamento con i bandi contro il gioco del cardinale Benedetto quando era Legato a Bologna. Il saggio si conclude ricordando le opere ritenute disperse della collezione che continuano a riapparire, anche se non ancora la parte mancante del nucleo già a Berlino.
L’inedito Discorso sopra alcune curiosità delle antichità di Roma, indagato nel saggio di Luisa Capoduro, Dottore di ricerca in Storia dell’arte alla Sapienza ed archeologa, scaturisce da un’altra grande passione del Marchese: accanto alla pittura, la scultura, l’architettura e la musica, è indiscusso l’amore per l’antichità, testimoniato dall’imponente collezione di sculture antiche (riprodotte in parte dal Giustiniani nei due volumi della Galleria Giustiniana) e di recente visibili al pubblico in una sezione rilevante della mostra sui Marmi Torlonia[27] (Roma 2020-2021), dove le sale dedicate alla collezione Giustiniani hanno suscitato un nuovo interesse sulla raccolta e su Vincenzo collezionista e intenditore di antichità. Luisa Capoduro ricorda all’inizio il topos letterario del dialogo e le conversazioni erudite in accademie come quella degli Humoristi, conversazioni con «virtuose occupazioni» come la musica, e «l’unione di persone letterate». Il Discorso si apre con «l’huomo, per istinto naturale, ha il desiderio di sapere» accento in cui colgo una eco aristotelica e lincea[28]: ma se Vincenzo usa nei suoi testi la parola esperienza si tratta di esperienza personale, non sperimentale, e va ricordato che come molti altri aristocratici di antica o recente nobiltà (con poche note eccezioni) Vincenzo Giustiniani, ben aggiornato sugli scritti di Galileo, non era linceo e metodi e interessi (anche artistici e collezionistici) non coincidevano,[29] se non nella «cognition delle cose», una pluralità di saperi conoscitivi pratici o cultura materiale della conoscenza empirica[30].
Il Discorso sopra alcune curiosità delle antichità di Roma è strutturato come uno scambio di opinioni alla pari in un consesso, sotto il mascheramento della conversazione tra tre personaggi indicati con nomi di fantasia, per i quali Luisa Capoduro propone plausibili identità accomunate dalla passione per il collezionismo, in quanto proprietari di «musei già ricchi di tante cose maravigliose»; noto che solo in questo Discorso, specificamente dedicato all’antico, il Marchese usa la parola «musei» (intesi probabilmente come raccolta), e anche la parola «galleria», che ricorre una sola volta, «la Galleria del Giustiniano» come dice Udalgo intendendo la galleria per eccellenza.
Non credo che Vincenzo Giustiniani aspirasse ad essere erudito, certamente conoscitore, ma la parola erudizione si affaccia molte volte[31] soprattutto all’inizio quando il marchese si esprime nella veste di Palanio con i due altri interlocutori acutamente individuati da Luisa Capoduro: Tiramo è Francesco Angeloni[32], stabile a Roma dal 1620, al servizio della famiglia Aldobrandini dopo la morte del cardinale Pietro (1621), ma vorrei notare che anche Angeloni scrive poco dopo un dialogo ugualmente a tre voci (evidentemente in voga) Dello studio dell’opere più belle della natura e dell’arte[33]. Udalgo è anagramma di Gualdo, cioè Francesco Gualdi, qui identificato brillantemente grazie alla traccia data da Vincenzo Giustiniani quale abitante alla Colonna Traiana come chiaramente indicato in una incisione di Lauro del 1628: in effetti Fabrizio Federici[34], che ha approfondito la figura di Gualdi, ne segnala contatti con Giustiniani e certamente con Amayden.
Nel titolo del Discorso ‘curiosità’ alleggerisce l’autore dallo sfoggio di erudizione, e sulla curiosità[35] Luisa Capoduro osserva che «in sé non deve essere considerata un vizio, quando può servire ad ampliare la conoscenza storica» e che per Vincenzo « la difficoltà consiste nella misura», nell’ultima fase riflessiva della sua vita: aggiungo che sulla ‘curiosità’ aveva scritto proprio Angeloni[36], con accenti ben più moraleggianti che mancano in Giustiniani, tant’è che usa la parola nel titolo.
Giustiniani-Palanio si pone all’inizio un problema di metodo filosofico evocando Aristotele, e poi inizia un percorso dal Colosseo ‘gran machina’ la cui magnificenza (ripete tre volte la parola) è esaltata nella tecnica. Si passa al Settizonio, dove la Luisa Capoduro nota che è solo Vincenzo che per età può parlarne avendo lui visto il monumento in piedi prima di Sisto V, e può dare nuove preziose informazioni su porfidi, graniti e marmi colorati e bianchi; seguono considerazioni sulla gravità elementare tratta dall’esperienza e non dalla filosofia «Di modo che l’esperienza c’insegna che le fabriche riescono ben fatte all’usanza corrente da tanti secoli in qua, non ostante la consideratione esplicata di sopra per mera curiosità, cavata dalla filosofia naturale e dalle matematiche», e che la studiosa collega alle conferenze galileiane sui gravi; si profila il superamento delle «teoriche» da confrontare con l’esperienza e la pratica.
Il metodo di osservazione di Vincenzo, che non cerca a tutti i costi una risposta, è messo in luce a proposito dei fori nelle murature antiche «per potere per l’avvenire andar investigando più oltre, per saperne rendere la vera e propria ragione»; l’autrice nota che l’Amayden, dopo la scomparsa di Vincenzo Giustiniani, ricorda le riunioni colte e intende riprenderle a casa sua e che Bellori testimonia che Angeloni fu spinto a far incidere e pubblicare le sue monete antiche da Vincenzo, così unisce questa notizia con i legami di Vincenzo con Cassiano dal Pozzo (già esplorati da Francesco Solinas) e la loro ‘sintonia’ nel promuovere pubblicazioni coinvolgendo e scambiando tra loro amicizie, artisti ed idee. Per se stesso e per questi personaggi, ciascuno a suo modo collezionista, vale la frase di Vincenzo Giustiniani estrapolata dalla Capoduro «la difficoltà consiste nella misura» ma «tanto più si inanimiscono a perfettione li loro musei».
Il Discorso comprende l’analisi di monumenti antichi, dalla Colonna Traiana al monte Testaccio, ma noto che, come per la trattazione sulla pittura, non vi è una vera gerarchia tra i monumenti e i luoghi evocati; la datazione del testo oscilla attorno alla proprietà del Vaso Portland già passato agli eredi del Monte per pochi mesi tra agosto e dicembre 1626 (ma anche per una citazione riferibile al 1628), vaso di cui, grazie al Marchese, si conosce ora la provenienza di scavo, la zona delle Sette Sale, monumento attentamente indagato sotto il profilo architettonico, da cui provengono anche il bassorilievo con Zeus e Amaltea, un vaso in marmo del Marchese riprodotto nella Galleria Giustiniana e un vaso proprietà dei Vittori.
Luisa Capoduro propone anche alcune ipotesi su altre statue menzionate nel Discorso, che si intrecciano con altre collezioni cinque e seicentesche; nel dialogo, Udalgo si dedica in particolare alle sculture, e una statuetta di porfido raffigurante Venere, di cui si traccia il passaggio dal duca di Nevers Gonzaga al cardinale Ludovisi ai Medici, viene identificata con una statuetta agli Uffizi nel 1641 e ora a Pitti, con scritta in greco, dello scultore cinquecentesco Serbaldi (ma che è ritenuta antica da Gualdi). Considerata la provenienza, Luisa Capoduro suggerisce due tesi ugualmente stimolanti: la prima si lega alla proprietà Gonzaga, e quindi una possibile appartenenza allo studiolo di Isabella a Mantova, la seconda propone un’origine dai Medici, forse da Lorenzo duca di Urbino con cui Serbaldi era in contatto, passando poi alla figlia di Lorenzo, Caterina de’ Medici (nell’inventario della Corona francese del 1560 è descritta una statua uguale) e forse da lei donata a Ludovico Gonzaga e a Enrichetta de Cléves, da cui al figlio duca.
Le autrici segnalano accuratamente ogni volta che un autore citato trova riscontro nell’inventario della biblioteca[37], direttamente o indirettamente come nel caso di Seneca letto attraverso Giusto Lipsio, filosofo che compare tra i libri e più volte richiamato nel volume; nei Discorsi sono menzionati ad esempio Omero e Orazio, entrambi non presenti, come molte altre fonti canoniche, nella raccolta dei libri (come pure Vitruvio, forse mediato dai trattati di Alberti o Serlio), il che fa pensare ipoteticamente all’esistenza di una biblioteca parallela, non registrata negli inventari, oppure donata da Vincenzo o lasciata a Bassano e dispersa: dobbiamo quindi considerare, a mio avviso, non solo la biblioteca materiale («la stanza della libraria»[38]) ma anche una biblioteca ‘figurale’ di Vincenzo Giustiniani. A volte gli autori sono citati con una certa libertà in posizioni imprevedibili, come, tra i pochi moderni, Guicciardini nel Discorso sui cavalli, il che appare paradossale visto che ne possedeva, come notano le autrici, la Storia d’Italia; ci si ispira non a una cultura libresca secondo categorie prestabilite ma aperta, con una definizione moderna di cross–studies, legata alla vocazione personale, espressione dell’individualità intellettuale, un sistema del sapere non erudito ma piuttosto estetico[39].
Si suppone anche dai contenuti dei Discorsi finali che il luogo di elezione per la scrittura sia stato Bassano, più volte citato, ma non escluderei che per godere degli amici cittadini per la conversazione accademica si siano preferite le due ville suburbane, con sale adatte (almeno in quella esistente al Laterano) e giardini, tutti luoghi ugualmente curati e adornati con statue, e raffigurati nella Galleria Giustiniana[40]. Le affermazioni di Vincenzo di aver scritto durante periodi di poca salute o di ‘passatempo’ («diletto conveniente» secondo la definizione della Crusca, 1612, il che lo rende non vacuo) rientrano a mio parere in un modello antico di otium (in particolare in villa[41]) come spazio per gli studi liberi e dilettevoli, talvolta contemplativi, che deriva da Cicerone (la sfera privata e non politica del sermo convivialis[42]), Orazio (citato nel Discorso per l’immobilità dovuta alla podagra), Seneca nel De brevitate vitae e nelle Lettere a Lucilio. Sospetto persino che Vincenzo abbia a modello Plinio il vecchio (libri XXXIII-XXXVI) sia per il luogo e tempo dell’otium sia per la a-sistematicità messa a sistema, la destinazione non letteraria e ricca di spunti dei suoi scritti, una certa Naturalis historia (che possedeva) dei suoi Discorsi; oppure allude ad una versione moderna delle Noctes Atticae di Aulo Gellio, del resto citate nel Discorso sulla conversazione quando si consiglia come numero ideale di partecipanti da tre come le Grazie a nove come le Muse secondo Varrone[43].
Un altro modello non dichiarato ma certamente noto a Vincenzo Giustiniani è Petrarca (l’unico autore di cui aveva un ritratto), che arriva all’otium letterario come distacco nel De vita solitaria[44]; tra gli umanisti, Leon Battista Alberti, di cui Giustiniani possedeva il De re aedificatoria e un volume in quarto definito Opera, è a mio parere quello che complessivamente impronta i Discorsi nei temi (non nella forma o nei contenuti) pur distanziandosene notevolmente, dall’architettura alla pittura alla scultura sino ai cavalli e i cani[45].
Nell’ordine attuale dei testi, si potrebbero ravvisare dei raggruppamenti a tre-quattro argomenti, ad esempio caccia, cani e cavalli, e più tradizionalmente con pittura, scultura e fabbriche, il che potrebbe anche far pensare ad una struttura in nuce per una pubblicazione. Procaccioli parla di complementarietà di temi tra precedenti accademie[46], e così pure i Discorsi svolgono la stessa azione come esposizione di arti e antiquaria, di contesti sociali e anche di geografia culturale, di naturalia non rare ma condivise, senza parodia né erudizione, nel giusto mezzo, sia nei contenuti sia nel commento finale. Visto che la raccolta non segue un ordine stretto di date, comunque circoscritte nell’arco degli anni ’20 o poco dopo con l’eccezione del Discorso sulla Pittura (1612), si deve intuire una costruzione ex post nella successione, confermata anche dalla lettera finale: quindi l’inizio è sociale, il cuore sono le arti, le conclusioni sono i capitoli sulla natura sia umana (il benessere) che animale (le loro razze e qualità), una organizzazione del pensiero che si vivacizza perché dedicata esclusivamente ad argomenti contingenti, che si legano tra loro con alcuni rimandi, in particolare alla «S.V.» quasi certamente Camillo Massimo. Lo schema interno dei singoli Discorsi è solitamente senza preamboli, ma subito in medias res, con qualche eccezione non negli argomenti culturalmente più rilevanti, e spesso appaiono curiose digressioni che accentuano la narrazione conversevole, molto gradevole soprattutto nei Discorsi più elencatori.
Nelle collezioni si mette in scena un confronto tra antichi e moderni che a suo modo precede la Querelle des anciens et des modernes (anticipata da Alessandro Tassoni nel 1620[47]) e che guarda alla Francia; nei Discorsi e nella Galleria Giustiniana si cerca un sistema di selezione e ordine, e la seconda non è un catalogo ma un’altra prova narrativa per immagini, una composizione differente con criteri diversi della galleria, una selezione qualitativa per confrontarsi con le grandi opere scelte delle altre grandi collezioni dell’epoca (si pensi all’opinione di Francis Haskell e Nicholas Penny[48]), un «visual document» e «ideal portrait of the collection»[49] – direi in uno spazio virtuale – e non è detto che l’ordine delle immagini sia stato stabilito all’inizio o non invece come per i Discorsi in corso d’opera (anche in base alla resa più o meno efficace in riproduzione delle opere) in questo caso secondo i desiderata del committente.
Si ha l’impressione che si possano scorrere i Discorsi come un Museo cartaceo senza immagini, a differenza della novità visiva di Cassiano dal Pozzo e anche della stessa Galleria Giustiniana, del resto non scissa dai progetti di Cassiano[50], tanto che per Solinas[51] l’idea di Galleria a stampa si lega «senza dubbio» al Museo cartaceo. L’opera incisa non a caso inizia nel 1631, grosso modo quando i Discorsi sono completati, e quindi segna un nuovo percorso intellettuale di Vincenzo, questa volta visivo, anch’esso «in diretto contatto con il mondo esterno»[52], dopo quello narrativo, che aveva espresso l’intento di raggruppare e presentare in modo originale e dotto seppure discontinuo e con digressioni su temi mai scolastici come riflesso di una circolarità e condivisione di interessi, testi stesi, per ammissione dell’autore, quasi per una necessità esistenziale contro la noia (scriverà su di essa Pascal nel 1670 «nulla è insopportabile all’uomo quanto essere in un completo riposo, senza passioni, senza faccende, senza divertimento, senza un’occupazione»[53]).
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Caravaggio e i Giustiniani. Toccar con mano una collezione del Seicento, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Giustiniani, 26 gennaio-15 maggio 2001; Berlino, Altes Museum, 15 giugno-9 settembre 2001), a cura di S. Danesi Squarzina, Milano 2001
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V.Carpita, Tra Tasso e Galileo: l’idea bifronte del museo di Francesco Angeloni, in «Storia dell’arte», 2009, 122-123, pp. 93-118
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I Marmi Torlonia. Collezionare capolavori, catalogo della mostra (Roma, Musei Capitolini, Villa Caffarelli, 14 ottobre 2020-29 giugno 2021), a cura di S. Settis e C. Gasparri, Roma 2020.
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Ways of making and knowing 2017
Ways of making and knowing: the material culture of empirical knowledge., atti del convegno Londra 2005, a cura di P. H. Smith, A.R.W. Meyers, H.J. Cook, New York 2017
[1] Il volume è acquistabile come e-book (http://digital.casalini.it/9788821010712) o copia cartacea (https://www.vaticanlibrary.va/it/pubblicazioni/).
[2] Danesi Squarzina 1997 e 1998.
[3] Caravaggio e i Giustiniani 2001.
[4] Danesi Squarzina, 2003.
[5] Se si confrontano le due raccolte già note ed edite, ossia Orsucci 48 e Ott. lat., 2365 già di Amayden, rispettivamente sono sette nel primo e quattro nel secondo, anche se nella raccolta Amayden, come ho già scritto (Aurigemma 2001, pp. 167-172), doveva essere presente il Discorso sulla pittura pubblicato da Michele Giustiniani nel 1675 separato dal ms Ott. lat. 2365, operando una selezione ma riportando varie lettere di dedica ad Amayden evidentemente da lui aggiunte perché in Vat. lat. 12670 non ve ne sono (tranne una).
[6] Come gli scritti quasi coevi di Giulio Mancini, anche quelli di Vincenzo Giustiniani sono rimasti manoscritti, con la differenza che Giustiniani li ha raccolti in una versione definitiva unitaria, mentre Mancini ha prodotto, come noto, ventidue volumi sovrapponendo, riscrivendo e quindi rendendo il suo lavoro non pubblicabile sino alla collazione ed edizione moderna di Marucchi-Salerno, 1956-1957, I, Introduzione, che segnala anche nei ms argomenti tangenti quelli del marchese (cfr. anche De Renzi-Sparti 2007) di cui parlerò nel mio prossimo saggio i.c.d.s..
[7] Manca in questa raccolta Avvertimenti per uno scalco, presente in quella lucchese, riportata da Banti 1981, ma di attribuzione incerta, e che alla studiosa sembrava destinato a «un palazzo gentilizio di Genova» (p. 123).
[8] Sullo stretto legame tra Vincenzo e il nipote, cfr. Danesi Squarzina 2003, Documenti, p. XXVII, e pp. 177-193 per la figura di Camillo e il suo inventario del 1640.
[9] Il ms in questione non contiene, come detto, le lettere di dedica ad Amayden presenti negli altri manoscritti (ma solo quella per la caccia); ne consegue un ridimensionamento della figura dell’avvocato a favore dell’identificazione nella «S.V.» di Camillo Massimo.
[10] Come già suggeriva Banti 1981, p.6, parlando di «amichevoli esercitazioni», mentre intuiva l’esistenza di un unico volume.
[11] Si tratterebbe, secondo Mazzetti di Pietralata 2001, p. 175, di un riferimento agli spazi in cui Giustiniani ospitava i giovani artisti da lui protetti, intesa come accademia per studio nel palazzo di famiglia. Per Strunck 2001, p.64, Vincenzo si presenta come «promotore di una accademia privata che ha trasformato la pubblicazione di quella raccolta in un’opera d’arte autonoma».
[12] Tra i più recenti studi rinvio a Intrecci virtuosi 2017 e Le Accademie a Roma 2020.
[13] Secondo Strinati 2001, è citato «in modo divertito e ironico» p.46 (ma cfr. anche Danesi Squarzina, ivi, p. 41); Giustiniani ricorda l’Annunziata di Zuccari (due volte) al Collegio Romano distrutta nel 1623 e la apprezza (con riserva): «e perché talvolta un pittore ha fatto opera eccellente e lodatissima e poi mai più ne ha fatta simile, come il Zuccaro nella nicchia dell’Annunciata del Collegio Romano». Del resto nel palazzo di Bassano Bernardo Castello utilizza per le decorazioni incisioni da Zuccari, cfr. Anselmi 2003, pp. 184-185; Danesi Squarzina 2003, inv. I, pp. 435-436, per Federico nell’inventario.
[14] Danesi Squarzina 2003, inv. I, pp. LXXII-LXXIV.
[15] Questo conferma l’intuizione di Banti 1981, che rilevava (p. 7) «non dovendo allontanarsi troppo dal 1610, anno di morte del Merisi (che è citato come «pittore dei nostri dì»).
[16] Per «più che mediocre» Giustiniani intende «più che discreto», quindi in senso positivo, direi adatto a un giovane da mettere alla prova, e come mi ha fatto notare Luisa Capoduro, che ringrazio, il termine ‘mediocre’ è usato sempre da Vincenzo nei Discorsi in questa accezione, e non negativa (come conferma il codicillo del 1638 a Camillo Massimo). Del resto non avrebbe senso iniziare con un rimando negativo alla mediocrità, ma piuttosto per introdurre i parametri di cui tenere conto.
[17] Danesi Squarzina 2001, p. 30, sottolinea il contatto ripetuto tra Giustiniani e Cerasi.
[18] L’ipotesi che il riferimento al cardinale fosse non per Del Monte ma per Giustiniani, e anzi che il quadro fosse stato commissionato dai due fratelli, con una serie di deduzioni che prendono le mosse anche da Calvesi, in Pierguidi 2011, pp. 202, 204, 213-214. Si aggiunge ora anche la nota ‘di parte’ di Celio, secondo cui a consigliare Merisi al cardinale Del Monte per la Cappella fu Prospero Orsi, creando poi il consenso popolare, cfr. Gandolfi 2021, p. 321 (ringrazio Massimo Moretti per il suggerimento).
[19] Danesi Squarzina 2003, Documenti, pp.20-21.
[20] Fogg Art Museum, Cambridge Mass, in Caravaggio e i Giustiniani 2001, A9, p.119.
[21] Per il gran numero di artisti stranieri citati e anche ospitati mi sono chiesta quanti di questi, spesso giovani e sconosciuti, avrebbero potuto preferire e trarre giovamento dalla foresteria immaginata ma non realizzata per la sua scomparsa da Zuccari in casa propria, quindi godendo di autonomia e ponendosi in relazione diretta con l’accademia, piuttosto che nell’orbita di un committente e collezionista come Vincenzo, che garantiva, oltre alle commissioni, anche il contatto diretto con le sue collezioni antiche e moderne.
[22] Preimesberger 2001, p.53.
[23] Sul gusto di Vincenzo rinvio a Cropper – Dempsey, 1996, p. 99. Sull’unità tra pittura e scultura realizzata attraverso la Galleria Giustiniana anche nella ricerca estetica come nella tecnica Strunck 2001, p. 63.
[24] Preimesberger 2001, pp. 52-53.
[25] Passa per il Fracastoro e per la simpatia naturale cfr. Preimesberger 2001, pp. 54-55; Cropper- Dempsey 1996, in realtà riguarda i contagi pp. 99-101 (da Galeno, interessante legame con la salute dei Discorsi seguenti); secondo Fracastoro, Navagero nega che il poeta scriva solo per piacere, non cerca la similitudine ma la bellezza dell’espressione dell’idea.
[26] Strinati 2001 pp.46-47, tratta del Discorso a confronto con l’Amore vincitore.
[27] I Marmi Torlonia 2020.
[28] Mi riferisco evidentemente al discorso di F. Cesi, Del natural desiderio di sapere et istitutione de’Lincei per adempimento di esso, tenuto a Roma nel 1616.
[29] Secondo Cropper Dempsey, 1996, p. 90, Vincenzo era più vicino all’ideale di corte di Castiglione che alla filosofia naturale dei Lincei. Per Galileo, letto da Vincenzo negli anni ’30, cfr. Baldriga 2001, pp. 74, 79 (anche per una possibile posizione arretrata di Benedetto): ma noto che l’anticopernicano Liberti Fromondi De immobilitate Terræ in 4° è pubblicato ad Anversa nel 1631, dopo la morte del cardinale (1621) quindi apparteneva a Vincenzo.
[30] Brevaglieri 2019, e Ways of making and knowing 2017.
[31] Come pure memoria, materia, persone virtuose, insieme a velocità d’ingegno ed eloquenza naturale, argute facezie, ecc.: ma per questi aspetti lessicali e per considerazioni sulla biblioteca Giustiniani rinvio ad un mio contributo in corso di stampa nella collana monografica «Lessico artistico» di «Horti Hesperidum».
[32] Sparti 1998 a e 1998 b (ma si vedano anche E. Vaiani 2014, L. Lorizzo 2017, L. Sickel 2018), in particolare il secondo saggio, sugli anni ’20, fase di assestamento; sul dialogo a tre con M. Massani e G. Gigli, pp. 51-52; p.55, Angeloni mette il suo museo volutamente alla rinfusa per confrontare meglio, sistematico nella sua a-sistematicità, ed è con questi occhi che si dovrebbe guardare a molte delle raccolte secentesche.
[33] Carpita 2009, pp. 94-104.
[34] Federici 2003, pp. 149-159, per i contatti con Amayden.
[35] Federici 2010, pp. 229-273: erudito di curiosità (il termine usato nel titolo del Discorso di Vincenzo) equivale per Federici ad approssimativo, a differenza dell’esattezza postulata da Peiresc, e, aggiungo, dell’atteggiamento assertivo di Giustiniani.
[36] Cfr. Carpita 2008; mie osservazioni sulla base dell’uso nei Discorsi di «humor peccante» per ridimensionare l’ipotetico ‘pentimento’ di Giustiniani in un saggio di prossima pubblicazione.
[37] Per gli interessi volti anche verso il mondo inglese, alchimia e astrologia, esotico e teatro, cfr. Baldriga 2001, che nota il numero esiguo di libri, meno di 400, rispetto ai 3000 di del Monte e quindi il sospetto di un inventario incompleto (p. 73).
[38] Danesi Squarzina 2003, Inventari I, pp. LXXIII-LXXIV
[39] Secondo Cropper-Dempsey 1996, p. 89, la questione è se il buon gusto sia perché aristocratico o venga da un habitus morale; Vincenzo è meno vicino a Castiglione e Vasari e scivola da giudizio a gusto.
[40] Galleria Giustiniana 1631-1640, II: Villa a porta del Popolo, già di Benedetto, tavv. 155- 156, Villa al Laterano tavv. 157-160, Bassano tavv. 161-162, 165.
[41] Come già notava Magnani 2006, p.14, per il quale l’antico e la vita in villa sono «segni fondanti del prestigio della famiglia» riferito anche a Luca Giustiniani a Genova.
[42] Craveri2001, p. 457, retorica antica per l’otium non per il negotium, delle Epistulae ad familiares di Cicerone. Fumaroli 1993, su otium, convivium, retorica, pp. 439-443.
[43] Noctes Atticae, XIII, 11, 1-7, da Varrone, Saturae Menippeae, che non ci è giunto se non attraverso Gellio.
[44] Danesi Squarzina 2003, I, p. 383, e p. 437 per il De remedijs utriusque fortunæ in biblioteca.
[45] Alberti è nella biblioteca principale, ivi, pp. 376, 379; Plinio, Guicciardini, Serlio e Ripa sono nell’inventario di Bassano, ivi, pp.519-520.
[46] Procaccioli 2018, p.231, «non concorrenza tra accademie ma complementarietà, al punto che non sarebbe azzardo eccessivo dire che si trattava quasi di sezioni di un’unica grande accademia, un’accademia paolina o farnesiana».
[47] Querelle des anciens et des modernes ad vocem in Dizionario di filosofia Treccani 2009 online. Per Tassoni, Herrmann Fiore 1996.
[48] Haskell-Penny1984, pp. 32-33, riportano l’opinione dei visitatori sulla collezione Giustiniani come un repertorio con pochissimi pezzi di qualità da confrontare con le altre collezioni. Strunck 2001, p. 66 per il paragone.
[49] Cropper Dempsey 1996, p. 71
[50] Danesi Squarzina 2001, p. 39, Cropper-Dempsey 1996, pp. 65-68.
[51] Solinas 2001, pp. 151-174, p. 151, per il Museo cartaceo i disegni sono tratti da collezioni altrui, mentre per la Galleria si tratta di opere scelte di un solo proprietario e si potevano variare, i trenta artisti si differenziano, quindi si coglie la ‘matrice estetica’, in entrambi i casi come scuole per artisti.
[52] Fusconi 2001, p. 16.
[53] Traggo la citazione dalla voce Noia del Dizionario di filosofia Treccani, 2009 online. Ulteriori mie considerazioni sugli altri Discorsi in un saggio in preparazione.