Arte liberata 1937/1947. Capolavori salvati dalla guerra. Recensione della mostra e note a margine
Come recita il titolo Arte Liberata 1937/1947. Capolavori salvati dalla guerra, la mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale (a cura di Luigi Gallo e Raffaella Morselli, 16 dicembre 2022 – 10 aprile 2023) si propone di raccontare un tormentato capitolo della storia del patrimonio culturale nazionale, quello della Seconda guerra mondiale, durante il quale funzionari e funzionarie dello Stato attivi nell’ambito della tutela delle Belle Arti salvarono migliaia di beni dal pericolo dei bombardamenti e dei trafugamenti, dai saccheggi, dai vandalismi e dal rischio di esportazioni forzate. Per restituire l’entità dello sforzo al quale l’Italia venne chiamata nel corso di quel decennio, l’esposizione – nata dalla collaborazione con la Galleria Nazionale delle Marche, l’ICCD e l’Archivio Luce Cinecittà – mette insieme opere d’arte diverse per tipologia e provenienza, fotografie, filmati, documenti amministrativi e carteggi privati in un allestimento capace di evocare un doloroso senso di precarietà e fragilità.
La vicenda del Discobolo Lancellotti apre il percorso e il primo dei filoni tematico-narrativi nei quali si struttura la mostra, intitolato “Le esportazioni forzate e il mercato dell’arte”. Nonostante il vincolo di inalienabilità sancito dalla legge Rosadi del 1909 e nonostante il parere negativo espresso dal Consiglio Superiore, il marmo venne ceduto per 5 milioni di lire dal Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano al Füher per essere esposto alla Gliptoteca di Monaco di Baviera (Fig.1).
Nella costruzione propagandistica di una supposta “bellezza ariana” la statua antica, associata a concetti di forza e armonia, costituiva per Hitler un tassello fondamentale e irrinunciabile, come dimostra il documentario Olympia girato dalla cineasta Leni Riefenstahl alle Olimpiadi di Berlino del 1936 in cui il Discobolo tra dissolvenze e sovrapposizioni si trasforma progressivamente nell’atleta tedesco Erwin Huber. Nell’ambito di tale attività predatoria, non solo i gerarchi, ma anche gli antiquari riuscirono ad aggirare gli ostacoli per esportare illecitamente beni nazionali verso la Germania. A tal proposito, la mostra ripercorre la storia della permuta avvenuta tra il mercante Eugenio Ventura che cedette a Hermann Göring una quindicina di opere italiane del Rinascimento fiorentino in cambio di quadri di pittori impressionisti, illegalmente requisiti agli ebrei durante l’occupazione nazista in Francia. L’interesse per il patrimonio italiano va inquadrato nel più ampio contesto del delirante progetto universalistico del “Museo del Füher” di Linz, che avrebbe dovuto raccogliere i capolavori della produzione artistica europea sottratti ai paesi occupati.
La seconda sezione “Spostamenti e ricoveri” affronta il tema delle operazioni di salvaguardia del patrimonio artistico nazionale coordinate dal Ministero dell’Educazione Nazionale, nella persona di Giuseppe Bottai, da cui dipendeva l’intera rete delle Soprintendenze regionali. Lo scoppio della guerra non colse impreparato Bottai che, parallelamente all’attività riformistica – culminata con la promulgazione delle due leggi del 1939 sulla tutela delle cose di interesse storico e artistico e sulle bellezze naturali – aveva programmato un piano di protezione del patrimonio. Il piano, diffuso capillarmente attraverso circolari riservatissime, conteneva precise disposizioni per la messa in sicurezza delle opere da dividere in base all’importanza storico-artistica e per l’identificazione di rifugi sicuri in termini di sorveglianza e condizioni termoigrometriche.
L’esposizione si concentra sull’attività di Pasquale Rotondi che giocò un ruolo determinante in questa fase: fresco di nomina a soprintendente alle Gallerie delle Marche, si assunse fin dal suo arrivo a Urbino nel 1939 il compito, affidatogli dall’amico e ispettore ministeriale Giulio Carlo Argan, di provvedere alla costituzione di un grande ricovero negli ampi spazi sgombri di Palazzo Ducale, predisponendolo ad accogliere opere d’arte provenienti dall’Italia centro-settentrionale. Tuttavia, la sistemazione di un deposito di munizioni nelle gallerie ferroviarie proprio sotto Urbino trasformò il centro storico in un potenziale bersaglio militare e costrinse il soprintendente a organizzare, di concerto con il Ministero, un secondo massiccio trasferimento di tesori verso un territorio considerato più sicuro: la Rocca di Sassocorvaro e, come riserva a partire dall’aprile 1943, il Palazzo di Carpegna sulle pendici del monte omonimo. A destare grande preoccupazione, si aggiungeva la questione della conservazione delle opere imballate nelle casse protettive per via della formazione di un pericoloso microclima umido. Gli eventi dell’estate 1943 con la caduta di Mussolini, la firma dell’armistizio e la formazione del nuovo governo, rimescolarono nuovamente i piani di Rotondi che si trovò a guidare una nuova impresa nota con il nome di “Operazione Salvataggio”. L’innalzamento del fronte lungo la Linea Gotica, con la prospettiva di una guerra combattuta tra eserciti avversari sul territorio nazionale, indusse infatti il soprintendente a ricondurre precipitosamente a Urbino gran parte delle opere di Carpegna e Sassocorvaro, stipandole nel portabagagli dell’automobile del suo fidato collaboratore Augusto Pretelli. Intanto il Patriarca di Venezia per mezzo di Vittorio Moschini, soprintendente alle Gallerie di Venezia, chiedeva la riconsegna immediata del Tesoro di San Marco e delle chiese veneziane con l’obiettivo di collocarlo nella cripta della Basilica. A titolo esemplificativo, si propone un breve elenco dei beni coinvolti nell’operazione, alcuni dei quali esposti alle Scuderie: la Tempesta di Giorgione, le Storie di S. Orsola del Carpaccio, la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, l’Immacolata Concezione del Barocci, la Santa Palaziadi Guercino oltre alle collezioni di Brera, della Borghese, delle chiese romane e marchigiane (fig.2). Una parte cospicua del patrimonio artistico italiano visse per diversi mesi stipata nel buio dei ricoveri di Rotondi.
Protagonista della seconda parte dell’“Operazione Salvataggio” è lo storico dell’arte romano Emilio Lavagnino, all’epoca ispettore del Ministero, che in sinergia con Rotondi organizzò tra il 1943 e il 1944 lo spostamento di duecento casse contenenti capolavori depositati nei ricoveri marchigiani in Vaticano, grazie a un accordo con il direttore dei Musei Vaticani Bartolomeo Nogara e con il cardinal Montini, futuro papa Pio VI. L’ispettore guidò una seconda impresa, questa volta a bordo della sua leggendaria Topolino con la sola compagnia di Palma Bucarelli (impegnata a trasferire le opere della Galleria d’Arte Moderna presso il Palazzo Farnese di Caprarola), per salvare dipinti e oggetti dislocati nei piccoli e medi centri del territorio laziale, fra cui la Pietà e la Flagellazione di Sebastiano del Piombo provenienti da Viterbo (fig.3). In questa sezione, la forza del progetto espositivo risiede nella scelta delle fonti: il Diario (1940-1946) di Pasquale Rotondi e il Diario di Emilio Lavagnino, a cui i pannelli di sala fanno continuo riferimento in una vivace narrazione degli eventi raccontati “in presa diretta” e che assicurano una rigorosa ricostruzione dei fatti e degli stati d’animo che mossero le scelte dei due.
Al secondo piano la mostra si articola in micro-sezioni di approfondimento sulle specifiche vicende delle città, dei singoli musei e dei funzionari incaricati di proteggere le collezioni dopo la chiusura al pubblico di tutti i musei, ordinata da Bottai il 5 giugno 1940. Emerge il senso corale di un impegno civile, che oggi risuona come monito, assunto da tutti e tutte senza riserve: il soprintendente della Campania Bruno Molajoli salvò miracolosamente le opere custodite a Montecassino dalle bombe alleate trasferendole in extremis a Roma; l’ispettrice Noemi Gabrielli, con la direttrice della Galleria Sabauda Anna Maria Brizio, scortò personalmente le opere piemontesi presso il rifugio del Castello di Guiglia sull’Appenino modenese e nell’estate 1944 si assunse la responsabilità di spostarle nuovamente a Isola Bella sul Lago Maggiore, viaggiando nottetempo sulla Via Emilia a rischio della propria vita e salvandosi grazie alla conoscenza della lingua tedesca (fig.4). La soprintendente alle Gallerie milanesi Fernanda Wittgens, prima dell’incarcerazione a San Vittore a seguito del “Processo delle Signore”, trasportò le opere dei suoi musei in Umbria e nelle Marche e protesse con sacchi di sabbia il Cenacolo Vinciano, baluardo di resistenza in una Milano martoriata dalle bombe. Il percorso si snoda indagando ulteriormente le figure di Rodolfo Pallucchini a Venezia, di Palma Bucarelli e Aldo De Rinaldis a Roma, di Giovanni Poggi a Firenze, di Francesco Arcangeli a Bologna, di Jole Bovio Marconi a Palermo e sul misconosciuto salvataggio del patrimonio librario.
In questa occasione soffermarsi sulle date di nascita e sul percorso di studi compiuto dai giovani storici dell’arte, che la guerra trasformò in difensori del patrimonio sotto attacco, non costituisce un mero esercizio biografico. Osservare da vicino le tappe della formazione di ciascuno di loro permette di comprendere il retroterra culturale all’interno del quale agirono: nati nei primi anni del Novecento, trentenni allo scoppio del conflitto, dopo la laurea molti di loro frequentarono la Scuola di Perfezionamento in storia dell’arte medievale e moderna di Roma, istituita e diretta dapprima da Adolfo Venturi e poi da Pietro Toesca. Il biennio di perfezionamento li aveva successivamente proiettati nei ranghi dell’amministrazione delle Belle Arti, in qualità di storici dell’arte presso le Soprintendenze dislocate nel territorio nazionale. Esemplificative di tale cursus le carriere di Noemi Gabrielli (nata nel 1901) laureata a Torino con Lionello Venturi e perfezionata a Roma con Pietro Toesca, dal 1936 era ispettrice della Soprintendenza piemontese; di Bruno Molajoli (nato nel 1905) dopo la laurea e il perfezionamento a Roma, dal 1930 ricopriva la carica di ispettore presso la Soprintendenza di Ancora; di Palma Bucarelli (nata nel 1910) laureatasi e perfezionata alla scuola di Toesca, dal 1937 era ispettrice alla Soprintendenza del Lazio e nel dicembre 1939 passò alla Galleria d’Arte Moderna, ma si potrebbero citare anche i casi di Pasquale Rotondi, Giulio Carlo Argan e Emilio Lavagnino.
Formatasi negli stessi istituti sotto il magistero degli stessi maestri, questa generazione di storici dell’arte dimostrò negli anni concitati della guerra una profonda comprensione del ruolo che erano stati chiamati a ricoprire. Per ciascuno di loro, la storia dell’arte diventò non solo il fine ultimo della ricerca scientifica ma il canale privilegiato di espressione di una moralità destinata a fungere da modello. Eroici protagonisti di imprese tanto più coraggiose e meritevoli se si considera l’ambigua situazione politica nella quale essi si trovarono a lavorare nei circa diciotto mesi tra l’armistizio e la Liberazione: che fossero apertamente antifascisti come Lavagnino e Wittgens o meno, nessuno di loro aveva accettato l’ordine del governo fascista di trasferirsi al nord ed erano quindi tutti dimissionari dalle amministrazioni di appartenenza. Pertanto, nonostante le direttive impartite dal Ministero, le operazioni raccontate in mostra debbono essere ricondotte a individuali e illuminate iniziative, spesso ai limiti della legittimità, che esposero molti di loro a pericolose conseguenze. Unici depositari del patrimonio, furono costretti a dialogare sia con i funzionari tedeschi che con gli Alleati anglo-americani (come accadde d’altronde in Francia alla pluridecorata storica dell’arte e partigiana Rose Valland che ostacolò il trasferimento in Germania delle opere riunite al Jeu de Paume).
Non da ultimo conviene ricordare che, dopo la traumatica esperienza bellica, i medesimi funzionari contribuirono alla ricostruzione delle città invase dalle macerie. Gli ispiratori e le ispiratrici del celebrato processo di rinnovamento museografico e museologico che investì le istituzioni museali italiane dal 1945 in poi furono Giulio Carlo Argan, Noemi Gabrielli, Fernanda Wittgens, Piero Sanpaolesi, Vittorio Moschini, Bruno Molajoli, Palma Bucarelli, Emilio Lavagnino (quest’ultimo fu titolare dagli anni Cinquanta della cattedra di Museografia alla Scuola di Perfezionamento). Essi promossero un’inedita progettualità architettonica, sostennero la necessità di riallestire le collezioni secondo nuovi e selettivi criteri d’ordinamento e inaugurarono un’intensa attività espositiva. Sfogliare il volume Musei e Gallerie d’arte in Italia. 1945-1953, pubblicato dalla Direzione Generale Antichità e Belle Arti e presentato alla Conferenza ICOM del 1953, permette di comprendere l’ampiezza delle operazioni compiute in quella straordinaria stagione di ricostruzione fisica, identitaria e concettuale della struttura-museo. Unico, ma raffinatissimo, accenno presente in mostra a questa gloriosa stagione il trittico Malvagna del Mabuse proveniente da Palazzo Abatellis e presentato nel pannello progettato da Carlo Scarpa.
Chiude l’esposizione la sezione “La fine del conflitto e le restituzioni” con l’omaggio ai Monuments Men che operavano nella MFAA (Monuments, Fine Arts and Archives), a Giorgio Castelfranco, direttore generale delle Belle Arti durante il governo Badoglio, e alla spregiudicata attività di Rodolfo Siviero, agente a capo dell’Ufficio per il Recupero delle Opere d’Arte a cui si devono clamorosi recuperi: il Discobolo Lancellotti, i dipinti illecitamente esportati da Ventura, la Danae di Tiziano, riportata in Italia dopo che Göring l’aveva requisita per collocarla nella sua dimora privata ed esposta alla «Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania» del 1947 come documenta la fotografia che congeda i visitatori delle Scuderie (fig. 5).
Quest’ultima annotazione permette di individuare un merito ulteriore di Arte Liberata 1937/1947: aver messo al centro del racconto la fotografia, intesa come strumento imprescindibile nell’esercizio attivo della tutela del patrimonio. Su impulso dell’amministrazione, il mezzo fotografico documentò infatti il ricovero delle opere nei rifugi, i danni di guerra (si pensi alle immagini pubblicate nel 1947 in Cinquanta monumenti danneggiati dalla guerra a cura di Emilio Lavagnino), ma anche la fase successiva delle ricostruzioni postbelliche, in particolare il restauro dei complessi architettonici monumentali offesi dalle bombe e dagli incendi e i nuovi allestimenti museali. L’imponente e preziosissima documentazione visiva, costituita dalle campagne fotografiche commissionate dalle Soprintendenze, è in gran parte conservata nell’Archivio MPI della Fototeca ICCD, eccezionale serbatoio da cui provengono numerosi scatti esposti in mostra.
Julie Pezzali, marzo 2023
Si ringraziano Alberto Novelli e Scuderie del Quirinale per aver concesso l’utilizzo delle fotografie.