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Frate Giovanni Antonio Yepes e la decorazione dei Luoghi Santi tra 1729 e 1737*

Antonello Ricco

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Antonello Ricco

Il presente articolo anticipa uno studio dedicato al commissario generale di Terra Santa Giovanni Antonio Yepes e agli artisti di Napoli coinvolti nell’ornamentazione delle chiese di Gerusalemme, Nazareth e Betlemme. L’attualità del contributo è dovuta anche alla prossima apertura (settembre 2024 – gennaio 2025) dell’esposizione Il Tesoro di Terrasanta al Museo Marino Marini. La bellezza del sacro: l’Altare dei Medici e i doni dei Re, a cura di Jacques Charles-Gaffiot e Leyla Bezzi.
L’articolo intende riconsiderare un insieme di opere, ad oggi valutate isolatamente, per relazionarle a un committente e alla politica culturale della Custodia francescana di Terra Santa, interessata al rinnovamento dei principali siti della Cristianità. Così, attraverso l’analisi di dati documentari, letterari e figurativi, ricostruisce le vicende dei manufatti, con i rispettivi artefici, restituendoli ai contesti d’uso originari. Dunque, in questo estratto, per la prima volta, si menziona l’altare maggiore d’argento nella chiesa di San Salvatore a Gerusalemme, realizzato dai De Blasio su iniziativa di Yepes, e si ammira il San Giuseppe con Gesù bambino nel convento dell’Annunziata di Nazareth attribuito a Francesco De Mura, che estende l’esperienza del pittore con i francescani d’Oriente fino al 1740 circa.

Yepes e gli argentieri della famiglia De Blasio

I legami di frate Yepes con gli argentieri della famiglia De Blasio sono attestati almeno dal 1729, anno di commissione e di realizzazione di un noto tabernacolo in argento e rame dorato (fig. 1) conservato nel convento di San Salvatore a Gerusalemme, ove arrivò il 9 novembre di quell’anno con una spedizione partita da Napoli il 9 agosto e sostata lungamente a Malta (i viaggi da Venezia, porto privilegiato d’Europa nelle rotte per la Terra Santa, che annoveravano maggiori sbarchi lungo le coste, duravano tra 20 e 50 giorni) [1]. Il tabernacolo fu parte di un significativo insieme di manufatti comprendente una custodia, tre gradini, diciotto candelieri e molte giare d’altare, da realizzare entro «l’ultimo di giugno 1729 per la chiesa di San Salvatore di Gerusalemme»[2], che fu saldato a Gennaro De Blasio il 9 agosto, dopo aver raggiunto un accordo sul prezzo finale[3].

Fig. 1. Andrea e Gennaro De Blasio con aiuti, Tabernacolo dell’altare maggiore, 1729. Gerusalemme, chiesa di San Salvatore. © Custodia di Terra Santa.

De Blasio, firmandosi «Januarius De Blasio Aurifaber», eseguì lo splendido antependium (fig. 2) nella medesima chiesa, pervenuto alla Curia custodiale il 1° giugno 1731, e sul quale Yepes fece incidere il suo nome: «Ioannes Antonius Yepes Commissarius Generalis Terrae Sanctae Naeapolis Fecit Anno Domini MDCCXXXI»; un acconto fu incassato il 12 giugno[4]. Tra i più elevati raggiungimenti dell’arte argentaria partenopea del Settecento, l’antependium composto di tre pannelli si distingue nel contesto produttivo locale per la quantità e la qualità scultorea dei personaggi realizzati a tutto tondo e ad altorilievo, e per la complessità dell’ambientazione prospettica della scena, che ancora risente dei modelli pittorici di Viviano Codazzi, tra gli artisti seicenteschi più noti per le ricerche spaziali. Testimonia altresì di un’attenzione di Gennaro De Blasio per la produzione di Francesco De Mura, poiché la Pentecoste per gli elementi architettonici, la Madonna e alcuni Apostoli ricorda la pala eseguita dal pittore nel 1722 nella Cappella Lembo della cattedrale di Salerno[5], di cui è noto anche un disegno all’Istituto Nazionale per la Grafica[6].

 
Fig. 2. Gennaro De Blasio, Paliotto dell’altare maggiore, 1731. Gerusalemme, chiesa di San Salvatore. © Custodia di Terra Santa.

Dalla documentazione relativa al tabernacolo e all’antependium si evince che Andrea De Blasio e i suoi famigliari, con a capo Gennaro che riscuoteva presso i Banchi e firmava il paliotto, eseguirono parti di un altare in argento con cornici in rame dorato, commissionato in due momenti diversi ma rispettando un progetto unico, messo in atto nel triennio 1729-1731, che purtroppo non si conosce nella sua interezza per il venir meno dei tre gradini e di una porzione di tabernacolo. Inoltre, per questo altare eseguirono candelieri e giare (vasi spesso impiegati con le “frasche”, ossia composizioni floreali in argento, seta o altro materiale), usati insieme prevalentemente tra la Domenica delle Palme e il Mercoledì Santo. Quindi, richiamando le consuetudini attuali nella chiesa di San Salvatore circa il montaggio del paliotto sotto alla mensa d’altare e del tabernacolo a ridosso della stessa, nonché le antiche attestazioni di gradini in ebano e argento per la decorazione di arredi ecclesiastici nel Santo Sepolcro (il ciborio e l’altare pontificale all’esterno del Tempietto dell’Anàstasis), si può concludere che gli argenti dei De Blasio costituissero l’altare maggiore nella chiesa settecentesca.

Di maggiore impegno per Gennaro De Blasio fu il «quadro d’argento» della Resurrezione di Cristo (cm 160x197x40; fig. 3) destinato alla basilica del Santo Sepolcro. Riferito a Gennaro per ragioni stilistiche[7] e da pagamenti del 30 giugno 1736[8] e del 6 febbraio 1737[9], il monumentale rilievo, datato «MDCCXXXVI» dall’iscrizione, costò qualche migliaio di ducati e comportò la cessione di oggetti d’oro e d’argento non più usati dai francescani. Fu spedito smontato in tre casse che giunsero alla Curia custodiale il 13 agosto 1737[10], ove fu assemblato da esperti artigiani locali, magari formati dall’argentiere napoletano Cesare Rossano qualche anno prima nel corso del suo lungo soggiorno a Gerusalemme. L’altorilievo fu realizzato in porzioni fuse a getto mentre la cornice fu eseguita in lamine martellate: tutte le parti vennero fissate per mezzo di perni e viti all’anima di legno. Un inventario degli oggetti del Santo Sepolcro redatto nel 1895 rubricava l’opera indicandone ben 24 elementi[11], che possono corrispondere alle 16 lamine costituenti la cornice e alle 5 porzioni dell’altorilievo (i due soldati, i due gruppi di cherubini e Cristo con il sudario), cui s’aggiungono lo stendardo con l’asta, l’aureola raggiata e infine la struttura di legno, oggi costituita da un tavolato comprensivo di cornici modanate.

Fig. 3. Gennaro De Blasio, Resurrezione di Cristo, 1736; prima del restauro del 2023. Gerusalemme, basilica del Santo Sepolcro. © Custodia di Terra Santa.

Il manufatto doveva essere collocato all’interno del Tempietto dell’Anàstasis e più precisamente nella camera funeraria, ovvero l’ambiente più interno che si apre alle spalle della cappella dell’Angelo[12]. Gennaro De Blasio ebbe precise indicazioni circa il luogo cui l’opera era destinata, vale a dire la parete destra al di sopra della lastra di marmo posta sulla roccia della primitiva grotta (il sarcofago attuale è cm 185x94x65), che ne determinarono il formato e le scelte iconografiche.

Yepes e Francesco De Mura

Riferibili alla volontà di frate Yepes di adoperare Francesco De Mura come artista prediletto per la decorazione dei Luoghi Santi sono i dipinti dell’Estasi di san Francesco d’Assisi e dell’Apparizione di Gesù a sant’Antonio da Padova (cm 171×128 senza cornice; figg. 4-5) collocati nel refettorio del convento dell’Annunziata di Nazareth, restituiti al maestro dopo una precedente attribuzione all’ambito di Bartolomé Esteban Murillo[13], e dell’Istruzione di Maria (misure non rilevabili; fig. 6) documentata nell’abside della chiesa di Sant’Anna a Sephoris almeno da una fotografia del 1895 ma oggi dispersa[14]. Essi vanno relazionati ad un corpus di quattro tele destinato alla chiesa dell’Annunziata di Nazareth che Yepes e Giuseppe Torella commissionarono al pittore nella prima metà del 1732, una volta assolto il precedente incarico del 1730. Stando al primo pagamento incassato il 30 giugno di quell’anno la serie comprendeva «San Giuseppe, Sant’Anna, San Francesco e Sant’Antonio di Padua, […] ognuna in suo quadro con l’adorno e circostanzo»[15], ovvero con la cornice centinata, e andava ultimata entro il marzo successivo. Il 26 febbraio 1733, per l’espletamento dell’incarico De Mura riscosse il saldo di 130 ducati[16], comprensivo di un regalo di 10 ducati per il numero di figure composte, e così il 7 giugno i quattro dipinti, adorni di cornici dorate, raggiunsero la Curia custodiale con la definitiva destinazione a Nazareth[17]. Ma la pala destinata all’altare del padre putativo di Gesù risulta ancora dispersa e non è identificabile con l’opera, di più grande formato e stilisticamente diversa [18], sulla quale tornerò a breve[19].

Le opere spedite a Nazareth nel 1733 – le due superstiti – rivelano una qualità altalenante imputabile forse all’intervento della bottega e di sicuro alle maldestre operazioni di manutenzione subite nel corso del tempo che hanno alterato la superficie pittorica, come emerso anche dal restauro ancora in corso. La pellicola pittorica di entrambe le pale è offuscata oltre che da depositi di sporco e diffuse integrazioni di colore soprattutto da una vernice ingiallita non ben identificata e di difficile rimozione; è inoltre rovinata da piccoli strappi e lacune prodotte dalle ripercussioni del telaio per il mal tensionamento della tela (l’Apparizione di Gesù a sant’Antonio da Padova ha un telaio più recente). Nonostante lo stato di conservazione però, esse attestano il progressivo evolvere del linguaggio demuriano in chiave classicista per la luminosità dei colori e la levigatura delle superfici di alcuni brani, e continuano a palesare l’influenza di Solimena per gli aspetti compositivi.

Fig. 6. Abside della chiesa di Sant’Anna a Sephoris con la pala di Francesco De Mura raffigurante l’Istruzione di Maria del 1732-1733. ACTS, fondo fotografico, Sanctuaria Terrae Sanctae, 1895.

È opportuno a questo punto tornare sul San Giuseppe con Gesù bambino da me, in questa sede, espunto dal ciclo pittorico del 1732-1733 (fig. 7). Va subito chiarito quali sono gli elementi oggettivi che mi hanno portato a tale conclusione. Si valutino prima gli aspetti stilistici: sebbene richiami le composizioni del sant’Antonio e del san Francesco, nella torsione del corpo e nel volgere frontalmente lo sguardo al fedele san Giuseppe si carica di un’esuberanza comunicativa del tutto nuova; inoltre i colori si discostano dai bruni divenendo decisamente più chiari, con azzurri, gialli, verdi e bianchi declinati in numerose tonalità. Si passi ora al supporto: il formato originale era centinato e attualmente si presenta rettangolare per l’aggiunta di un rappezzo nella parte superiore, ma l’altezza della tela originale (cm 195×98,5 senza cornice) supera di molto le pale con sant’Antonio e san Francesco (cm 171×128 senza cornice). Dunque, l’opera, di cui non si conosce la primitiva collocazione, oggi conservata in un corridoio al secondo piano del convento dell’Annunziata dove la segnalavo nel 2018 con l’attribuzione a Francesco De Mura, va considerata parte di una nuova commissione, ancora manchevole di addentellati documentari, fatta intorno al 1740 forse dallo stesso Yepes.

Fig. 7. Francesco De Mura, San Giuseppe con Gesù bambino; prima del restauro del 2024. Nazareth, convento della Santissima Annunziata. Foto di Rossella Lari. © Custodia di Terra Santa.

L’analisi della superfice pittorica, approfondita durante il restauro ancora in corso a Firenze, mi ha consentito di rilevare le caratteristiche della manomissione, presumibilmente databile alla metà dell’Ottocento, quando fu creato un fondo dorato con losanghe ornate da stampigliature a motivi floreali per celare il bordo centinato dell’antica tela cucito a quella di rifodero (quest’ultima costituita da due teli uniti grossolanamente). Probabilmente il fine ultimo era quello di elevare l’immagine a icona di carattere neomedievale, stile introdotto tra i francescani in Terra Santa già dal Sogno di Giuseppe di Bernardo Butte esposto dal 1838 nel convento di Santa Caterina d’Alessandria a Betlemme[20]; non si giustificherebbe altrimenti il rinnovamento del dipinto, che non rivela danni importanti, eccetto la privazione delle porzioni laterali della tela originaria. L’opera mostra porzioni di doratura non ossidata in corrispondenza della cornice, inchiodata direttamente sul dipinto ma ora eliminata, e palesa successive stesure di vernici metalliche giustificate dall’insorgere di lacune come quella alla destra dei cherubini o le altre lungo le losanghe. Inoltre, le porzioni di tela che girano intorno al telaio offrono ancora importanti tracce di colore, che all’altezza dei personaggi consentono di dare continuità a vari elementi (giallo del manto, bruno delle rocce, verde della coperta, bianco del lenzuolo e azzurro del cielo). Attualmente, oltre a svelare la bellezza dei colori, il restauro ha consentito anche il recupero dell’intero corpo del Bambino grazie all’eliminazione di una ridipintura che aveva aggiunto la fusciacca rossa, censurando la nudità.


* Desidero ringraziare per il contributo fornitomi nella stesura del presente saggio frate Stéphane Milovitch, della Custodia di Terra Santa, André Afonso, del Museo Calouste Gulbenkian di Lisbona, Leyla Bezzi, della Fondazione Marino Marini di Firenze, Rossella Lari, restauratrice di Firenze.

[1] Archivio Storico della Custodia di Terra Santa di Gerusalemme (d’ora in poi ASCTS), Curia Custodiale (d’ora in poi CCUS), Armadio 7, Condotte, registro 8, 9 novembre 1729, c. 17v. Sulla spedizione vedi Di Furia 2023, pp. 97-100.

[2] Archivio Storico del Banco di Napoli-Fondazione (d’ora in poi ASBN), Banco di San Giacomo (BSG), giornale di cassa (g.c.), matr. 756, 28 apr. 1729, polizza trascritta in Di Furia 2023, doc. 3; anche Ricco cds a.

[3] ASBN, BSG, giornale di banco (g.b.), matr. 766, 9 ago. 1729, p. 1, n.a. 2388/2400. Di Furia 2023, doc. 4, per altra polizza.

[4] ASCTS, CCUS, Armadio 7, Condotte, registro 8, 8 giu. 1731, c. 19r. Circa l’acconto: ASBN, Banco del Salvatore (BSA), g.c., matr. 883, 12 giu. 1731, polizza trascritta in Di Furia 2023, doc. 6.

[5] Borla 2017-2018, pp. 259-260, 354-355, 410.

[6] Disegno a matita con l’iscrizione «De Mura», mm 221×170: Istituto Nazionale per la Grafica, Gabinetto Disegni e Stampe, Fondo Nazionale, inv. D-FN14129r.

[7] Riferito alla manifattura De Blasio in Catello 1972, p. 113 e attribuito a Gennaro in Ricco cds.b. Sull’opera anche: González-Palacios 1993, I, pp. 121-122; Id. 2013, pp. 153, 172-173; Catello 2014, pp. 98-101; e Charles-Gaffiot 2020, pp. 22-23, 150; Id. 2023; Id. 2024.

[8] ASBN, BSG, g.c., matr. 859, 30 giu. 1736, polizza trascritta in Di Furia 2023, doc. 15.

[9] ASBN, BSG, g.c., matr. 867, 6 feb. 1737, pp. 327-328, n.a. 1938.

[10] ASCTS, CCUS, Armadio 7, Condotte, registro 8, 13 ago. 1737, c. 27v: «En 13 di agosto è arribato in questa Santa Cità fra Diego di Foggia e ha rimesso in questa Procura di ordine del molto reverendo padre fra Giovanni Antonio Yepes, commissario di Terra Santa nel Regno di Napoli, la roba seguente: […] un quadro grande de la Resureccione tuto di argento, di ducento settanta e sei libre di argento».

[11] ASCTS, CCUS, Armadio 2, Carteggio case religiose, Gerusalemme S. Sepolcro, Carteggio tematico, b. 12, Inventario 12, post gen. 1895, p. 1: «Idem [Quadro] grande della Resurrezione per l’altare maggiore, di Napoli, pezzi 24».

[12] Amico 1609 ed. 1620, tavv. 31-33; Horn 1725-1744, II, cc. 57r-60r.

[13] Arce 1951, pp. 136 e 138-139 Custodia di Terra Santa di Gerusalemme (d’ora in poi CTS), Ufficio Beni Culturali (UBC), Inventario dei beni storico-artistici (IBSA), schede OA-00436 e OA-00437, 2018; Borla 2017-2018, pp. 49-50; Borla 2019. Le cornici, non originali, misurano cm 185×141.

[14] Borla 2017-2018, p. 50, che attinge dall’album Sanctuaria Terrae Sanctae del 1895.

[15] ASBN, Banco dello Spirito Santo (BSS), g.c., matr. 1247, 30 giu. 1732, p. 1078, n.a. 2846; la fede di credito del 10 giu. 1732 è trascritta in Di Furia 2023, doc. 9.

[16] ASBN, BSG, volume di bancali, fede di credito del 16 feb. 1733; g.c., matr. 806, 26 feb. 1733; fede trascritta in Di Furia 2023, doc. 10.

[17] ASCTS, CCUS, Armadio 7, Condotte, registro 8, 7 giugno 1733, c. 20v.

[18] CTS, UBC, IBSA, scheda OA-01691. Cornice cm 202×100.

[19] Cfr. Borla 2019, p. 142; Di Furia 2023, p. 113.

[20] CTS, UBC, IBSA, scheda OA-26528; Bagatti 1952, p. 143.

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