Sull’Ornithologiae di Ulisse Aldrovandi: animali come maestri di vita tra arte, scienza e leggenda
«Non ho mai descritto nulla senza averlo prima visto con i miei occhi e aver esaminato l’anatomia delle sue parti esterne e interne»[1].
Prendendo spunto dalle ricerche comparse nel recente volume Gli animali e la caccia nell’immaginario di Francesco Maria II della Rovere, che inaugura la collana Immaginare i Saperi, diretta da Daniela Fugaro e Massimo Moretti, saranno presi in esame, in questo contributo, alcuni dei volatili descritti in Ornithologiae,[2] opera offerta da Ulisse Aldrovandi al duca di Urbino, che entrò a far parte della sua collezione libraria conservata a Casteldurante dal 1607. Si tratta di alcune creature che, grazie alle loro caratteristiche naturali, sono particolarmente esemplificative sia di valori sapienziali, sia di abilità pratiche, entrate a far parte della quotidianità dell’uomo. Tra spiritualità, favola e scienza, ognuna di esse troverà la sua posizione nella complessa tassonomia aldrovandiana.
Il primo volume a stampa di Ornithologiae, dedicato a papa Clemente VIII Aldobrandini e inviato al duca di Urbino nel maggio 1599, era una edizione di pregio arricchita da una coloritura realizzata opportunamente dall’officina dello scienziato. Un segno di riconoscenza già manifestata nella dedica a Francesco Maria II di un precedente volume sugli insetti, De animalibus insectis: «Io mando a V. A. Serenissima la mia Historia degl’Insetti, dedicata da me al suo gloriosissimo nome, così per soddisfare in qualche parte agli obblighi grandi c’ho seco…»[3] (Fig. 1).
Ulisse Aldrovandi (Bologna 1522 – 1605) naturalista, medico, botanico, entomologo, docente di logica e filosofia all’Università di Bologna e viaggiatore instancabile, fu fra i primi ad avvertire la necessità di censire, descrivere e catalogare il maggior numero di esseri viventi, nel solco della tradizione enciclopedica greco-romana, fino a giungere alla creazione di un ricchissimo Museo. Nel “Theatro di Natura” venne raccolto il maggior numero di campioni di semi, radici, frutti, droghe, scheletri di animali, fossili, rocce e minerali, disegni e incisioni, oggi in gran parte conservati ed esposti nel Museo di Palazzo Poggi di Bologna. La monumentale opera di Aldrovandi, tributo fondamentale alla nascita delle scienze naturali e al rinnovamento del metodo tassonomico fino ad allora utilizzato, racchiude l’esigenza, comune a molti suoi contemporanei, di raccogliere le nozioni fino allora conosciute in un compendio il più possibile completo e ordinato. L’instancabile ricerca epistemologica attraverso il mondo animale, vegetale e minerale, configura un modello venatorio che diverrà metafora di un mutato processo conoscitivo e fondamento di una nuova filosofia della natura. Come avrebbe scritto lo storico seicentesco Daniello Bartoli: «L’uomo di lettere che cerca quello che altri non hanno trovato finisce per trovare quello che altri non hanno cercato». Riabilitati quindi dalla condanna della cupiditas oculorum,[4] pregiudizio che, nel solco della tradizione agostiniana, aveva accompagnato per tutto il medioevo ogni forma di curiosità, ritenuta un vizio di superbia, gli scienziati rinascimentali furono finalmente in grado di inoltrarsi nei misteri della natura, ancora filtrati da una luce mistica[5].
Consapevole del legame fra scienza e rappresentazione artistica, e del valore analitico dell’immagine, Aldrovandi fece illustrare i suoi testi dai migliori artisti del tempo, fra i quali Lorenzo Benini da Firenze, Cornelio Schwind da Francoforte, Cristoforo Coriolano e il nipote da Norimberga, Giovanni De Neri, e Jacopo Ligozzi, pittore del granduca di Toscana, che lo scienziato ospitò, per 30 anni, nella sua casa museo, con uno stipendio di 200 scudi d’oro l’anno, dando fondo a tutti i suoi averi[6]. Le fedeli riproduzioni di 18.000 esemplari naturalistici e di manufatti archeologici ed esotici, 7.000 piante essiccate conservate in 15 tomi, 17 volumi di acquerelli e le matrici xilografiche contenute in 14 armadi,sarebbero andate a far parte dell’imponente opera Historie Naturali. In un’epoca in cui le arti figurative avevano assunto il ruolo di propulsore della ricerca attraverso l’illustrazione scientifica, l’impresa contribuì a stabilire un inedito rapporto fra arte e natura coinvolgendo artisti che, grazie alla collaborazione con scienziati e studiosi, allargarono progressivamente i loro interessi dal ristretto campo dello studio della figura umana, ai più vasti regni della natura.Ribaltando la convinzione comune a tanti teorici del suo secolo, secondo i quali l’ideale perfezione artistica doveva essere il fine ultimo nella raffigurazione della natura, Aldrovandi considerava invece l’arte lo strumento essenziale per la sua rappresentazione realistica: «In somma la pittura debbe essere la vera imitatione delle cose di Natura».[7] Alle dipendenze dello scienziato, regista di tutta l’opera , i pictores lavoravano a fianco dei delineatores ai quali spettava il compito di trasferire i disegni su tavolette di legno di pero, poi intagliate e destinate alla stampa. Ruolo importante era giocato dal colore: «il colore è un ottima scala, et mezzo sicurissimo congionto con gl’altri accidenti cioè odore, sapore, et tatto per venir in cognitione perfettissima de misti o siano perfetti o imperfetti».[8] L’artista doveva quindi prestare docilmente la sua mano alla scienza, in un atto meccanico e preciso, con disegni e incisioni ai quali si doveva associare un sapiente uso del colore, nell’intento di vedere con gli occhi dell’anima, l’anima delle cose[9]: «… per cavarle la verità dalle tenebre ed uscire dalle favole descritte dagli antichi»[10].
Un’importante fonte per la stesura della sua opera sugli uccelli fu Costanzo Felici, medico marchigiano, l’amicizia con il quale, iniziata nel 1555, durò tutta la vita con assidui e reciproci scambi di conoscenze scientifiche. In risposta alle richieste del naturalista su particolari volatili, soprattutto rapaci, Felici iniziò lo studio dell’avifauna dell’Appennino marchigiano, che sfociò in un trattatello, Cognitione degli uccelli et animali pertinenti al aere [11], nel quale estese l’osservazione dagli uccelli predatori a una grande varietà di volatili presenti nella zona. Questo complesso di minuziosi appunti, ricco di 108 voci, permette oggi di riconoscere le specie ancora esistenti nel territorio, e di avere informazioni su quelle ormai estinte.
Come annunciato in una lunga lettera dell’aprile 1588, inviata a Ferdinando I de’ Medici, Aldrovandi si riproponeva di iniziare la redazione della sua monumentale opera con una lunga e particolareggiata dissertazione dedicata ai volatili, Ornithologiae, perché più utile a filosofi, medici, teologi e fonte di particolare diletto. Dal Medioevo, l’ampio risalto riservato nei volucrari aveva tramandato le proprietà e le doti magiche di questi animali. Raffigurati lungo i margini delle Bibbie e dei Libri d’Ore, dalle specie più comuni, agli animali esotici, a quelli fantastici, ognuno di loro custodiva una rivelazione e un ammonimento tracciato nell’antica mappa della natura. Tuttavia l’oscillazione continua fra il rassicurante ‘antico’ e il richiamo del ‘nuovo’, conferirà al soggetto studiato letture diverse che, dalla stretta osservazione anatomica e scientifica, confluiranno, con il loro bagaglio di vizi e virtù, nel variegato universo delle imprese e degli emblemi.L’Editio princeps di Ornithologiae, composta da venti libri suddivisi in tre tomi, vide la luce, dopo vicende travagliate, fra gli anni 1599 e 1603.[12] Per ragioni economiche solo le edizioni a stampa, destinate a mecenati e finanziatori, furono arricchite da incisioni acquarellate, come si legge in un carteggio fra lo scienziato e Francesco Maria II: «Mando a V.A. Serenissima il libro ch’ella commise si facesse colorire» (22 maggio 1599). Consapevole dell’inesauribile interesse che nutriva per le scienze e in particolar modo per i volatili, alcuni anni prima Aldrovandi aveva donato al duca di Urbino un imponente e magnifico volume atlantico, intitolato Libro d’Uccelli in pictura che, nelle 302 carte, comprende dettagliate, preziose e vivide raffigurazioni ad acquerello di uccelli, quadrupedi, pesci, animali fantastici, spesso completate da piante e frutti come annotazioni naturalistiche e ambientali, che si ritiene siano state desunte dalle illustrazioni che si ritrovano in Ornithologiae[13] (Fig. 2). L’enciclopedica opera Ornithologiae, redatta in latino[14] e improntata per gran parte a modelli aristotelici seguendo la consuetudine tardo cinquecentesca, ricorre frequentemente ad antichi testi come il Suida[15], a citazioni di filosofi ed esegeti dell’antichità, quali Plutarco, Cassiodoro, Eliano, Alberto Magno, Diodoro Siculo, a poeti quali Omero, Virgilio, Dante, ed alle opere di suoi contemporanei come Pierio Valeriano, con criteri tassonomici principalmente focalizzati su morfologia (fondamentalmente zampe e becco), abitudini, comportamenti e habitat, ancora in gran parte permeati da filosofia e religione. Con 670 figure tratte da disegni ‘vaghi’ e accurati, il primo tomo di Ornithologiae inizia con la descrizione dei rapaci ‘genere perfetto’ per poi proseguire nei successivi con «uccelli peregrini et finalmente de mostrifici; nei quali trattati, fra le differenze et le nature loro si farà luogo alle allegorie, alli augurii delli antichi»[16]. Sulla scorta dello schema descritto da Aldrovandi, si cercherà ora di mettere in luce, oltre alle caratteriste naturali delle creature prese in considerazione, il loro patrimonio di simbologie, leggende e tradizioni persistenti e a quel tempo ancora fortemente evocative.
Falco
In omaggio al pontefice al quale dedica il suo imponente lavoro, e nel rispetto della regola di federiciana memoria, l’aquila, emblema del potere e vertice indiscusso nella gerarchia dei volatili, e altri rapaci aprono la dissertazione sugli accipitridi, che prosegue, dal Libro IV al VII, con la particolareggiata descrizione del falco, e delle varie tipologie di falconidi. (Figg. 3-4) A lungo considerato specchio e maestro di regnanti e potenti per la naturale eleganza, l’innata saggezza, le straordinarie capacità visive e l’indole ardimentosa, il falco divenne il simbolo delle più elevate qualità nobiliari: «…chi lo conosce afferma addirittura che esso voli all’inverso volgendo il proprio occhio direttamente al cielo…alla maniera di un uomo libero e nobile non si abbassa e non cambia direzione» (Ael. NA 10. 14) e l’arte della falconeria, parallelo dell’educazione cortese, divenne sia svago regale, sia metafora dell’arte del buon governo. A tal proposito l’autore prosegue : «Per questo motivo oggi è di grande utilizzo ed è considerato un esercizio praticato da principi e monarchi per procurare molto piacere … Anzi, questi nobili ammiratori si incontrarono con questa banda di predoni tra le nuvole, e [seguono] come in un teatro, lo spettacolo della loro strage gridando e combattendo attraverso i loro rapaci…perciò quelle cose che [i rapaci] prima per loro natura cacciavano da soli, ora come mercenari abituati al dominio e all’addestramento, predano la nostra preda».
Quindi non sarà più l’uomo a misurarsi con la bestia selvatica ma, grazie ad un’intesa raggiunta con pazienza e assiduità, potrà canalizzare la sua aggressività nei comportamenti istintivi del volatile, delegando l’esercizio della caccia alle sue abilità naturali: «…a nessuno sembra sorprendente che un uccello che è stato per sempre nella natura selvaggia, addomesticato dall’uomo, si precipiti fuori con grande impetuosità, per tornare al pugno…» (Tomo I, p. 301) (Fig. 5). La collaborazione con l’uomo inizia in tempi remoti, riprende il naturalista da un passo di Plinio della Naturalis historia: «In una zona della Tracia a nord di Anfipoli uomini e falchi si sono alleati nelle batture di caccia. Gli uomini, armati di bastoni, fanno levare gli uccelli dalle foreste e dai canneti, i falchi a loro volta li fanno scendere in basso, volando sopra di loro, e così i cacciatori catturano la preda [abbattendola con i bastoni] e la dividono con quelli… e quando è il momento di catturarli invitano i cacciatori a cogliere questa occasione mediante grida e voli particolari» (Tomo I, p. 299).
La presenza continuativa del rapace nella quotidianità dell’uomo ha determinato, attraverso l’osservazione dei suoi comportamenti, un apprendimento graduale di nuove pratiche poi applicate anche in ambito medico-scientifico. Nel capitolo Usus in medicina Aldrovandi riporta, con le parole di Eliano, l’antico rimedio dell’erba dello sparviero per la cura degli occhi: «…l’erba più amata di tutte, alla quale egli stesso diede il nome di Hieracium, [Hieracium pilosella] è la lattuga selvatica … chiamata da alcuni accipitraria» (Tomo I, p. 324). Eliano aveva infatti descritto nel De natura animalium che «…quando gli hiérakes [falchi] soffrono per la vista, subito si recano sulle sommità dei muri e strappano la lattuga selvatica, lasciando cadere un po’ alla volta il succo amaro e acre della pianta sui loro occhi: questa è la loro cura. Dicono però che anche gli esperti di medicina ne facciano uso» (Ael. NA 2. 43. 15 ss). Inserito nell’antica farmacopea oftalmica, il bizzarro rimedio veniva accettato nella pratica usuale dagli stessi medici, confermando come vero e credibile il magistero animale. Venerato presso gli antichi Egizi con dignità pari alla dea Osiride, negli Hieroglyphica di Valeriano, tratti dagli Hieroglyphica di Horapollo, il falco è protagonista di un’insolita allegoria di Dio (Fig. 6), rappresentata da una figura avvolta in un ampio mantello dal quale spunta la testa del rapace. E’ emblema della Vittoria raffigurato sul manto di Dario (Fig. 7) sul quale, fra i tre sparvieri ricamati in oro «con i rostri si muovessero l’un contro l’altro…», compare la parola VITTORIOSISSIMO. Simbolo del Vento, per Omero, il rapace è fecondo e aggressivo, scrive Aldrovandi, e si abbevera solo di sangue (a lungo creduto nutrimento dell’anima) e pertanto chiamato dagli Egiziani «baieth: baï (anima) e eth (cuore)… cosicché il nome nel suo insieme significa ‘anima racchiusa nel cuore’»[17].
Gru
Fra gli animali che hanno consegnato simbolicamente al genere umano un contribuito di esperienza e saggezza, la gru, preda preferita dai rapaci[18], maestoso volatile celebrato in poesia, letteratura, filosofia e leggende, ha offerto, alla luce delle sue eccezionali abilità, pratiche e modelli entrati nel quotidiano svolgimento di numerosi comportamenti umani (Figg. 8-9). Scrive Aldrovandi nell’incipit del capitolo ad essa dedicato: «Perché è sorprendente quanti eccellenti doni la natura abbia concesso alla specie delle gru: tra i quali il più importante è la prudenza, con la quale infatti, nel governare in questo modo, sembrano eccellere nel proteggere se stesse e lo stormo da tutti i pericoli… Non solo le gru lo gestiscono molto bene e con prudenza, senza troppa fatica, ma sembrano essere nate in qualche modo per esercitarlo… mosse dall’istinto della natura» (Tomo III, pp. 324, 328). Spesso definite Strymoniae, perché originarie della fredda regione della Tracia dove scorre il fiume Strimone, come riporta Eliano, le gru ogni autunno migrano in grandi stormi lungo il corso del Nilo, verso le paludi dell’Alto Egitto, un tempo abitate dal popolo dei Pigmei. Per secoli, racconta la leggenda, essi furono i più acerrimi nemici delle gru tanto da scatenare un’infinita e dolorosa guerra. La vicenda, ripresa da Aldrovandi, spiega come questo conflitto sia all’origine del nome géranoi con il quale per lungo tempo furono chiamati gli uccelli. Gerana bellissima e seducente regina dei Pigmei, onorata come e più di una dea, scatenò la gelosia di Hera e Artemide che punirono la donna e il suo popolo trasformando la giovane in un uccello crudele, e destinando i Pigmei ad essere per sempre odiati e combattuti dalla donna-uccello e dalla sua progenie, che da allora prese il nome di géranoi (Tomo III, p. 360). Le migrazioni delle gru coprivano distanze per l’epoca impensabili, per cui si attribuiva loro un’eccezionale conoscenza del territorio e dei venti e, data la naturale sensibilità nel capire i mutamenti delle stagioni, la loro partenza segnalava all’uomo l’inizio imminente dell’inverno, e il loro ritorno l’avvicinarsi dell’estate. Cita Aldrovandi i versi di Dante: «E come i Grù van cantando i lor lai/ facendo in aer di se si lunga riga/ cosi vid’io trahendo guai/ ombre portate dalla detta briga» (Tomo III, p. 340).
La presenza delle gru con il loro inconfondibile verso stridulo, scandiva i tempi della vita nelle campagne e ne diventava presagio, come dice Esiodo nei precetti sull’agricoltura: «Fa’ poi attenzione, quando tu odi il verso della gru, che ogni anno strepita dall’alto delle nubi, essa reca il segnale dell’aratura, e dell’inverno piovoso indica la stagione» (Tomo III, p. 345). Ottime navigatrici dei cieli, attraverso il linguaggio del loro volo, le géranoi sono state il modello di chi va per mare, secondo Eliano: «…Quando in mezzo al mare il timoniere vede le gru che tornano indietro, sospinte da venti contrari, capisce che deve interrompere il suo viaggio, e divenuto discepolo degli uccelli, naviga verso il porto e mette la nave in salvo» (Tomo III, p. 346). E ancora si legge in Ludovico Ariosto: «Cominciò a poco a poco indi a levarse/ Come sol fare la peregrina Grue/ Che correr prima e poi veggiamo alzarse/ A la terra vicina un braccio, ò due/ Et quando tutte sono all’aria sparse/ Velocissime mostra l’ali sue/ Sì ad alto Negromante batte l’ale/ Ch’a tanta altezza à pena l’Aquila sale» (Tomo III, p.346). Le migrazioni delle gru, comunità gregaria, politica e fortemente coesa, furono attentamente osservate nell’antichità alla luce della formazione dei loro imponenti spostamenti, paragonata da alcuni alla lettera Y (Fig. 10): «consente a tutti i componenti del gruppo l’uguale vantaggio di vedere il capo, poiché l’uno non ostruisce la prospettiva dell’altro, e a tutti è data la stessa possibilità di godere del vento a favore» (Tomo III, p.352).Nel suo trattato di tattica militare, il filosofo Asclepiodoto (I secolo a.C.) riporta la stessa tecnica quando descrive minuziosamente la disposizione gerarchica, a cuneo, dell’esercito macedone di Filippo II e del figlio Alessandro, la cui peculiarità fu di collocare i capi all’apice del triangolo affinché tutti i soldati volgessero lo sguardo verso il centro della formazione. Tuttavia, all’interno del filone naturalistico-paradossografico percorso da Eliano e riproposto dal naturalista, altri aspetti del volatile vengono narrati attraverso racconti e aneddoti, tra i quali ricorre il tema del sasso, suo inseparabile attributo, e pertanto riproposto spesso nella sua iconografia. Si narra infatti che, al fine di stabilizzare il volo, le gru avessero la curiosa consuetudine di ingerire un sasso che, espulso una volta posate al suolo, investito da una qualche prodigiosa autorità, veniva usato come pietra di paragone per saggiare l’oro (tesi fortemente avversata da Aristotele). Citando un passo dell’opera di Esopo, Scarabeus Aquilam quaerit, riporta Aldrovandi «quando le gru migrano in Sicilia e si accingono a sorvolare il monte Tauro, dove vivono molte aquile, tengono nel becco enormi pietre per soffocare la voce, e riuscire così a sfilare in silenzio nella notte, ingannando i rapaci» (Tomo III, p.337) (Fig. 11). Ad una pietra infine è collegata la proverbiale prudenza, loro dote più evocativa. Narra infatti Aldrovandi che, quando lo stormo esausto si posa a terra, durante la notte un componente veglia a turno sul riposo dei compagni con un sasso stretto nella zampa che cadendo, qualora dovesse cedere al sonno, lo sveglierebbe per il rumore.Ispirato alla saggezza innata del volatile, lo scienziato volle inserire la sua simbologia nel programma iconografico della sua villa di Sant’Antonio di Savena con il motto, Cura sapientia crescit: «…che sicome la grue presaga del male che gli può incorrere, et fatta maestra del modo, con che può schifare il pericolo della vita, con quei mezzi, che ella sa, attende che l’attion sua sia secura col porsi à sostenere una pietra nel piede… Volse imitare questo sagace ucello il sapientissimo Aristotele, il qual per non darsi troppo in preda al sonno appresso il letto poneva un bacillo poi si teneva in mano una palla di ferro over pietra, la qual vinto dal sonno gli cadeva di mano et lo svegliava». E’ interessante notare che la stessa iconografia della gru compare in un’impresa dei Montefeltro [19].
Struzzo
Ad un livello intermedio fra volatili e quadrupedi, l’opera di Aldrovandi accoglie altre particolari creature definite come animali il cui confine oscilla insensibilmente tra i due generi, anomalia che suscita riflessioni filosofiche e suggestioni magiche. Nel Libro IX, «De avibus mediae naturae, hoc est partim quadrupedis partim avis natura referentibus», passando per l’oscuro mondo dei pipistrelli, i vespertiliones, la trattazione si focalizza sulla figura dello struzzo (Figg. 12-13). «Lo Struthiocamelus allo stesso modo del pipistrello, è sia uccello che quadrupede, come un quadrupede non vola… Infine, è bipede come un uccello, ha gambe carnose come quelle dei cammelli … piedi bifidi divisi in due zoccoli alla maniera dei buoi …perché la natura abbia fatto lo struzzo biforcuto anziché con un piede con una punta sola, confesso di ignorarlo del tutto… Ma lo Struthiocamelus, poiché è un uccello bipede e ha le piume ma per il resto appartiene alla razza dei camminatori, non deve essere considerato aberrante» (Tomo I p.587-9). Le sue ali corte e inadatte al volo, si allargano come vele per permettergli di correre più velocemente dei cavalli dei suoi inseguitori, tuttavia una volta raggiunto, all’uccello esausto non resta che piegare il lungo collo e nascondere la testa tra i cespugli, in un inutile tentativo di invisibilità. Animale onnivoro (Strabone sostiene che sia carnivoro), lo struzzo è ritenuto capace di inghiottire sia le pietre, sia il ferro che riesce a fondere nello stomaco grazie alla sua straordinaria “natura calda”.
Benché su quest’ultima affermazione Aldrovandi dissenta, sia le illustrazioni riportate in Ornithologiae, sia la maggior parte delle iconografie che lo hanno riguardato dal medioevo in poi, lo rappresentano con un chiodo o un ferro di cavallo nel becco, attributo metallico, che insieme alla sua “focosità” ne fanno uno dei più ricorrenti protagonisti dell’emblematica rinascimentale. Lo testimonia l’impresa dedicata a Girolamo Mattei Romano da Paolo Giovio (Fig. 14): Spiritus durissima coquit, «significante ch’un valoroso cuore hà forza di smaltire ogni grave ingiuria», e quella dei Montefeltro: Posso inghiottire un grande ferro (tradotto dal tedesco, Fig. 15). Diversa ab aliis natura valemus: Siamo diversi dagli altri per natura, è il motto che Aldrovandi associa all’animale che, come narrato da Plinio, non cova le sue uova ma lascia che si schiudano grazie ai raggi infuocati sprigionati dal suo sguardo, o scaldate dal sole (Tomo I, p. 597) (Fig 16). Le uova grandi e pesanti, conservate nei tesori delle chiese che pendevano dai soffitti delle navate come “meraviglie”, rivestite di valori mistici e religiosi, come dice Guillaume Durand nel Rationale Divinorum Officiorum[20], dovevano rivelare che «anche un uomo abbandonato da Dio a causa del suo peccato, finalmente illuminato dalla luce divina, si ricorda delle sue trasgressioni e si pente, e ritorna a Lui, confortato dalla vista dei suoi peccati. La stessa luce con la quale, come è detto in Luca, il Signore guardò Pietro dopo che questi aveva rinnegato Cristo».
Spiritualità contestata da Pierre Belon che, nella sua Histoire de la nature des oiseaux[21], curiosamente asseriva che quelle esposte nelle chiese fossero in realtà, per la maggior parte, uova di coccodrillo. Ogni parte anatomica, dai piedi biforcuti, allo stomaco, agli occhi, ha configurato, fra similitudini e differenze, la natura focosa e stoica, o indifferente e paurosa dello Struthiocamelo. Tuttavia non manca nella trattazione un ultimo riferimento al suo prezioso piumaggio che, riporta Aldrovandi, era apprezzato sia nell’antichità come decorazione per armi ed elmi: «Perciò dovrei credere che Polibio parlasse di piume di struzzo, quando diceva che un tempo i soldati romani erano incoronati con corone di piume», sia dalle nobili signore sue contemporanee: «… specialmente a Bologna e Venezia, per le eleganti signore se ne fanno ventagli per la stagione estiva» (Tomo I, pp. 594, 597). Citando Horapollo, continua lo scienziato, le piume dello struzzo, particolari per essere tutte della stessa lunghezza, diventano metafora di un uomo che distribuisce la ‘giustizia’ a tutti in modo imparziale. Chiaro riferimento alla dea egizia Maat, personificazione dell’Ordine giusto e della Verità, preposta alla pesatura dell’anima del defunto che, per accedere all’aldilà, doveva essere leggera quanto una piuma di struzzo. La simbologia egizia, fusa con altre suggestioni attinte da Valeriano, diventa, nell’Iconologia di Cesare Ripa, l’immagine di una donna «…vestita di bianco, habbia gli occhi bendati; nella destra mano tenga un fascio di verghe, con una scure legata insieme con esse, nella sinistra una fiamma di fuoco, e a canto avrà uno struzzo … s’impara, che le cose… non si deve mancare di strigarle… con animo patiente, come lo Struzzo digerisce il ferro» . Derivata da Ripa, l’iconografia dello struzzo, dal XVI secolo in poi, comparirà frequentemente nella rappresentazione della Giustizia. Chiude il capitolo su questo singolare e complesso animale, un insolito suggerimento culinario: «…quindi chiunque abbia cacciato degli struzzi e desideri portarli in tavola tenga conto di Apicio [principale fonte sulla cucina dell’antica Roma] che così ne descrive il condimento: pepe, menta, cumino arrostito, semi di sedano, datteri o carota, miele, aceto, senape, salsa, e olio con moderazione, fateli bollire nella pentola legati con l’amido, e così versate i pezzetti di struzzo in un vassoio e spolverizzate sopra il pepe» (Tomo I, p. 596).
Manucodiata
Dai volatili reali a quelli sospesi tra confini indefiniti, il lungo elenco di caratteristiche anatomiche, miti e leggende di Aldrovandi si addentra nel mistero di specie esotiche tra le quali, nel Libro XII, spunta la descrizione dell’enigmatica Manucodiata (Figg. 17-18). Il fantastico uccello, molto ambito e ammirato presso le corti rinascimentali per la bellezza e per la sua misteriosa provenienza, era menzionato anche da altri autorevoli testi contemporanei. Felici asseriva di averne ammirati alcuni esemplari imbalsamati alla corte urbinate: «conservato in corte de gran signori in scatole come cosa rara e preciosa…io ne viddi già uno nella salvarobba del’Illustrissimo de Urbino» (BUB ms 688 cc 1r 24v) e Aldrovandi dichiarava di averne ricevuti in dono due esemplari dal duca stesso. La raffigurazione di questi volatili straordinaricompare tra le tavole acquarellate del già citato Manoscritto 2, e la loro descrizione trova ampio spazio nel volume Ornithologiae dove sono chiamati manuk-devata “uccelli degli dei”, perché ignoto il loro luogo di origine, e curiosamente sprovvisti di piedi (sebbene, riporta Aldrovandi, Aristotele asserisse che nessun uccello può essere dato senza piedi). «Si legge che i re di Marmin nelle isole Molucche, cominciarono a credere nell’immortalità delle anime perché non videro mai posarsi al suolo i bellissimi uccelli né altra cosa che fosse esistita sulla terra» (Tomo I, p. 806).
Conrad Gesner ne descriveva i curiosi metodi riproduttivi, nel suo trattato sui quadrupedi: «Or il habite fort haut en l’air. La femelle pond les oeufs sur le [?]repiò du masle, qu’il a creux. Et pour les couver elle s’attache avec le masle, avec une sorte de filet qui luy pend à la queuè » (Fig. 19)[22]. (Abita molto in alto nell’aria. La femmina deposita le uova sul dorso[?] del maschio, che ha un incavo. Per covarli si avvinghia al maschio con una sorta di filetto che le pende dalla coda). La stravagante creatura apparirà anche nel programma iconografico della già citata residenza di campagna di Aldrovandi, a Sant’Antonio di Savena: «… vuole l’autore che s’insegna come con l’animo et desiderio nostro s’altiamo à quell’oggetto che è il vero pasto dell’animo humano cioè le cose alte et celesti … mai di calar à le cose terreni ci vengha voglia et se converrà cadervi, … l’ho accompagnato col motto: sic animus alta petat». Il mistero dell’uccello apode, in realtà uccello del Paradiso, fu risolto quando si osservò che gli esemplari importati dalle Indie orientali con l’unica nave della flotta di Magellano rientrata in patria, imbalsamati e privati dei loro arti dagli stessi indigini, si presentavano solo come un corpo con due ali dal bellissimo piumaggio colorato. Tuttavia erano questi inserti esotici e bizzarri incastonati fra le pagine dei trattati scientifici che, con lo stesso fascino della Wunderkammer, rendevano i temi naturalistici ricercati e graditi dal “dotto gentiluomo” teorizzato da Castiglione per l’ideale corte di Urbino, fortunata fusione fra nobile e studioso attratto dalla scienza, con spunti più leggeri per arricchire quel tipo di cultura richiesta sia al cortigiano, sia all’intellettuale rinascimentale. Racconti ed elaborazioni simboliche, migrati nel tempo tra epoche e culture, hanno arricchito di metafore e significati il mondo animale, ridisegnandone progressivamente ruoli e confini, nel tentativo di coniugare il valore delle moderne acquisizioni con la preziosa eredità dell’erudizione antica.
Se l’apertura a nuovi e ignoti orizzonti aveva generato disorientamento e la tendenza a ripararsi nel rassicurante grembo della tradizione, aveva tuttavia contribuito ad evidenziare la profonda frattura già in atto fra pensiero medievale e cultura rinascimentale. In senso lato, nell’instancabile e ondivago esercizio di realismo di Aldrovandi si delinea quanto verrà affermato da Cassirer: «… Quanto più la scienza e l’arte divengono consapevoli della loro originaria funzione formatrice, tanto più comprendono la legge cui soggiacciono… Con ciò anche il concetto di natura e l’intero mondo degli oggetti assumono un nuovo significato»[23]. Verso la fine della vita Ulisse Aldrovandi rallentò la sua intensa attività per dedicarsi alla pubblicazione delle sue opere, di cui poté vedere in stampa soltanto una piccola parte. Nel 1603 nel testamento, lasciò al Senato bolognese il museo, i libri, i manoscritti, i disegni e le incisioni. Il 4 maggio 1605 morì senza eredi. Tale fu l’interesse e la stima che Francesco Maria II nutrì verso lo scienziato, che dopo la sua scomparsa, si rivolse ai Reggitori di Bologna raccomandando la stampa delle opere postume «… per particolar mio gusto, e per la perpetuità della memoria, e della lode dell’autore, che fù sempre da me amato, e stimato molto… e quanto goderei di vedere stampate quelle … altre parti, che restano, il che… sarebbe molto opportuno, e degno della lor bontà… che essendo dell’età, che sono, non può il desiderio, che ne tengo, soffrirne facilmente lo indugio»[24]. Negli anni successivi furono stampate a Bologna altre edizioni, tutte dedicate al duca di Urbino Francesco Maria II della Rovere, accompagnate sul frontespizio dalla nota: «Illustriss. Bonon. Senatu Curante Superiorum Permissu. Denuo Impress», a testimonianza dell’impegno assunto dal Senato Bolognese, come diretto erede del Museo e dell’opera di Ulisse Aldrovandi, di proseguire il grandioso progetto al quale lo scienziato bolognese aveva dedicato tutta la sua vita.
[4] AGOSTINO, Confessioni, Libro X, cap. XXXV.
[11] PANDOLFI, ZANAZZO 1993, p. 509.
[12] La prima edizione del primo tomo di Ornithologiae fu stampata a Siena da Francesco de Franceschi e la prima edizione degli altri due a Bologna da Battista Bellagamba, con privilegio per 10 anni da parte di Francesco Maria II della Rovere, Rodolfo II d’Asburgo e Ferdinando I de’ Medici. Aldrovandi non ricavò sostanziali entrate dalla vendita delle proprie opere: il 6 ottobre 1600 su 105 copie del tomo I di Ornithologiae ne erano state donate ben 69 e solo un terzo vendute (BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXVIII, c. 4v). Finito il privilegio la diffusione ebbe un notevole incremento.
[14] L’opera Ornithologiae tuttora non è stata tradotta integralmente, pertanto le frasi riportate fra virgolette nel presente testo sono state tradotte da chi scrive e accompagnate dall’indicazione del Tomo e della pagina di riferimento.
[15] Enciclopedia bizantina del X secolo il maggiore dei lessici greci giunti fino a noi, comprende circa 30.000 voci di carattere grammaticale, etimologico, biografico, geografico, storico, scientifico, letterario ecc., Enciclopedia Treccani.
[18] Come testimonia una lettera che Galeazzo Maria Sforza invia a Ludovico II Gonzaga: «Se la Signoria vostra ha qualche astore bon da grue…, pregamo quella ne voglia mandare…», Cfr. MALACARNE 1998, p. 103.
[19] Testo dell’impresa che Aldrovandi volle far rappresentare nella decorazione della sua villa di Sant’Angelo di Savena, in CORRAIN 2022, p. 71. Per l’impresa dei Montefeltro, Cfr. CECCARELLI 2002, pp. 54-55.
[22] GESNER 1584, p. 799. Testo conservato anche nelle scansie Roveresche, Biblioteca Alessandrina, Cfr. SAGLIOCCO 2023, pp. 333-342; De Simone 2023, pp. 113-122.
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M. Pandolfi, G. Zanazzo, Una avifauna dell’Appennino Centrale nel ‘500, il trattatello «Cognitione degli uccelli et animali pertinenti al aere» e le lettere di Costanzo Felici a Piobbico ad Ulisse Aldrovandi, in “BIOGEOGRAPHIA”, 17, 1993, pp. 509-530.