Terre di nebbia e di luce: intervista ad Anna Ottani Cavina

Il quarto appuntamento della rubrica di interviste ci conduce a Bologna per incontrare Anna Ottani Cavina, tra le più autorevoli studiose di molti e disparati ambiti di ricerca, dalla pittura di paesaggio ad alcuni artisti francesi e nordeuropei tra il Seicento e l’Ottocento, passando per la cerchia dei pittori caravaggeschi. Tra i fondatori della Fondazione Zeri che ha lungamente diretto, ha curato importanti esposizioni internazionali, insegnato in prestigiose università come Yale e Columbia e pubblicato libri per le più raffinate e ambite case editrici come Einaudi e Adelphi.
La città in un mattino prenatalizio odora di nebbia e festività, come un balsamo invernale, col vento freddo che s’ingolfa pei portici. L’odonimo dell’abitazione sembra scelto programmaticamente, essendo una città così indissolubilmente legata alla studiosa… Entrando in casa l’occhio inizia a vagare incuriosito tra le pareti, sbirciando tra librerie, dipinti e suppellettili varie, mentre la professoressa ci fa accomodare in un salottino. Le illustro brevemente le domande che le voglio porre e gli argomenti che vorrei trattare.
“Posso fare una cosa? Avevo preparato delle fotografie, perché magari ci danno degli spunti.”
Ci invita a seguirla in una grande stanza con colonne e dipinti alle pareti che catturano la mia attenzione. “Adesso però non perdiamo tempo”, ci dice sorridendo.
Su un grande tavolo al centro della sala sono sparse numerose fotografie; racchiusi con cura in cartelline sono disposti decenni di incontri, ricordi, viaggi, impressi sulla carta appena sbiadita. Sembrerebbe un comune album di ricordi familiari, ma scorrendo quelle immagini si ripercorre la storia dell’arte dello scorso secolo.

“Per me questa fotografia, scattata nel cortile dell’Archiginnasio dopo un intervento di Umberto Eco, rappresenta quello che Eco è stato per noi a Bologna. Una persona cui la città deve gratitudine, un docente innovatore, accessibile, generoso, in primo luogo verso gli studenti. Prestava attenzione ai ragazzi, che erano gli allievi dell’università e i più giovani.
Ho in mente una sera in cui l’ho sentito parlare di fumetti ai miei figli. Spiegava che la forza di Charlie Brown era ripetere con ostinazione, con ritmo jazzistico, alcune cose fondamentali, così come certe ballate popolari ripetevano all’infinito le stesse avventure. Perché il fumetto non andava giudicato con i criteri della letteratura, ma entro un sistema di lettura, e di creazione, molto diverso.
Tutti, in università, gli abbiamo voluto molto bene. Ricordo che una sera eravamo molto lontani dall’Italia. Eco guardò l’agenda, si accorse di avere un appuntamento per ricevere gli studenti il mercoledì, prenotò un aereo e tornò a Bologna. Ho pensato allora alle sue radici, culturali ed etiche: in filigrana si vedevano Verri e Beccaria.
Diventato una star, non ha cambiato stile di vita.”

“Quanto teatro invece c’è in un personaggio come Federico Zeri! Eccolo davanti al monumento del re Antioco I, al Nemrut Dagi, in Turchia, ai confini con la Siria. Zeri sognava di vedere un giorno questi frammenti di statue colossali, del I secolo a.C.. Oggi il monumento è stato restaurato e ricomposto, ma quando arrivammo nel maggio del 1988 quelle teste abnormi e decapitate, rotolate nella neve, assumevano una dimensione metafisica. Apparizione indimenticabile”
Come sono cominciati questi viaggi con Zeri?
Anch’io come tanti, avevo incontrato Zeri da tempo. Da parte mia l’ammirazione era grande, ma il rapporto non era confidenziale. Zeri restava “il professore”. Una sera piuttosto tardi, mi telefonò: “Signora Cavina, verrebbe in Siria?” Rimasi sorpresa, in silenzio: fu un viaggio, il primo di una serie, con il professore, pochi amici, mio marito. La Siria, poi la Turchia, la Sicilia, la Russia, la Grecia, l’Estonia … Viaggi che duravano molto, perché il professore amava i mezzi pubblici! Noleggiando una macchina ci saremmo spostati più rapidamente, ma straordinariamente bello è stato quel tempo perduto in cui, in fondo al pullman, lui raccontava, armato di sigaro.
Era un altro modo di viaggiare, più lento, difficoltoso, di mondi forse ancora in gran parte ignoti e quindi portatori di scoperte.
Certamente un modo di viaggiare più lento, con molte soste. Per visitare i paesi anseatici, nel giugno del 1990 e vedere a Tallin, in Estonia, un quadro di Mikhail Sitov nella chiesa di San Nicolò, si partì da San Pietroburgo in corriera. L’effetto di spaesamento fu enorme di fronte a luoghi che avevano mantenuto una forte identità nonostante la dominazione sovietica. Tenendo in mano un foglietto con le frequenze, Zeri in viaggio seguiva sempre i programmi della BBC.
Lui diceva di avere origini siriane.
Sì, diceva che la sua famiglia fosse originaria di Homs in Siria.
Diceva tante cose… (ridiamo). Questo è anche interessante, quanto c’era di teatrale, di enigmatico.
Io penso che di lui conosciamo solo quello che ci ha voluto mostrare, come voleva apparire. C’era una parte segreta, inespugnabile. Era imprevedibile, geniale, niente snobismi. A volte ci invitava a fermarci a cena nella sua villa di Mentana, piatti d’argento e un menu semplicissimo: giuncata e cavoli, cose così. Un giorno venne servito un piatto che lui diceva di aver studiato sulle fonti. Si chiamava tetrafarmacon, una ricetta dei tempi di Adriano: piccione, prosciutto, erbe varie e una crosta (buonissima) di pane. Un piatto enorme, da Satyricon, un po’ greve.
Non sono molto d’accordo con quello che di Zeri ha detto Antonio Paolucci.
Nella definizione che ha dato Paolucci di Zeri? “ malefico e sulfureo”.
Sì perché io al contrario ho sempre trovato Zeri di una umanità, di una pazienza, anche con persone che approfittavano del suo sapere
È in virtù del vostro legame che si è prodigata tanto per dare vita alla Fondazione Zeri?
Per via del lascito di Federico Zeri all’Università di Bologna nel 1999, mi sono trovata a essere tra i fondatori e primo direttore della Fondazione Federico Zeri.
Con l’appoggio del rettore Pier Ugo Calzolari abbiamo optato per una “Fondazione partecipata”, agile e relativamente autonoma sul piano amministrativo. Il Collegio scientifico non doveva avere un carattere solo onorifico. Attivo e presente ad ogni riunione a Bologna, il gruppo era composto da due direttori del Louvre (Laclotte e Rosenberg), un Chairman del Met (Everett Fahy), David Freedberg della Columbia University , Antonio Paolucci ecc. Figure generose e di grande esperienza che, avendo guidato istituzioni d’avanguardia importanti, mi hanno salvato da errori e progetti destinati a fallire. Aggiungo che uno degli elementi trainanti della Fondazione è stato il coraggio di pretendere che archivisti, bibliotecari, catalogatori fossero prima di tutto storici dell’arte, non solo tecnici. Così abbiamo costruito in tempi brevissimi il primo catalogo digitale on line della pittura italiana sulla base dell’archivio fotografico di Zeri, particolarmente prezioso per le annotazioni autografe su foto, libri, cataloghi, documenti. La disponibilità online di queste risorse ha cambiato radicalmente il modo di studiare la nostra storia dell’arte.
Quali sono state le sue folgorazioni giovanili? Quali le opere che l’hanno colpita profondamente da bambina o ragazza?
Non ricordo folgorazioni sulla via di Damasco. Sono cresciuta in una famiglia di medici e ingegneri che seguiva con passione la musica, la letteratura, le arti. Noi bambine studiavamo il pianoforte, andavamo ai concerti soprattutto da camera. La tappa obbligata d’estate, sulla strada delle vacanze al Lido di Venezia, era la visita nel Palazzo Ducale della grande mostra di pittura dell’anno. Seguiva un pic-nic ai “giardinetti”, i bellissimi giardini reali. E ogni anno un viaggio immancabile. Tutta la famiglia sulla piccola Seicento. Si viaggiava in Germania, Svezia, Danimarca, Francia, Inghilterra, fra parchi e musei.
Chi sono stati i suoi maestri?
In università a Bologna frequentavo I’Istituto di Storia dell’arte e anche un mio dipartimento ideale. I miei maestri li ho incontrati nei libri, poi sono diventati persone, che mi hanno accompagnato dal vivo.
Conquistata dal fascino di Longhi, che a Bologna aveva insegnato e lasciato il segno, ho studiato dapprima la cerchia caravaggesca (Paolini, Bassetti, Caroselli, Gentileschi e Carlo Saraceni che, a parte il Serodine di Longhi, è stata la prima monografia pubblicata in questo ambito). Da sempre ho amato, di Longhi, i suoi allievi più eretici, da Federico Zeri a Giuliano Briganti, entrambi conoscitori a largo spettro, ma del tutto autonomi nella lingua e nell’avere esplorato territori che il maestro avrebbe probabilmente detestato, dalla pittura di Controriforma al versante irrazionale e notturno del Settecento.
Il maestro si sceglie o lo si trova per caso lungo la via?
Nel mio caso è stata piuttosto una costellazione di incontri, determinanti e molto diversi: da Rosenberg ad Arcangeli a Praz e soprattutto – frequentato per anni a New York – Robert Rosenblum che in tema di pittura ‘moderna’ ha messo in crisi la mia prospettiva filofrancese spalancando le porte del Nord-Europa.
Poi hanno contato tantissimo altri incontri, vissuti scavalcando il recinto della disciplina: Anceschi, Arbasino, Camporesi, Raimondi, Mario Bortolotto, Franco Donatoni, Carlo Ginzburg, Fumaroli, Calasso, Umberto Eco. Di lui, non dimentico quei giorni d’estate, nella sua casa di Montecerignone, passati a elaborare intersezioni e liste incrociate per l’edizione di Encyclomedia, un progetto di conoscenza che Eco voleva fortemente interdisciplinare e che era l’imprinting del nostro DAMS alle origini.
Questa attenzione verso altre esperienze ha radici anche nella mia vita privata: la formazione chirurgica di mio marito, che ho seguito a Parigi e in U.S.A, e il mio impegno come docente a Yale, Brown, Johns Hopkins, Columbia University, in parallelo alla mia attività all’università di Bologna.
Lei ha cominciato nel solco della “connoisseurship” studiando Carlo Saraceni e i caravaggeschi, ma ha poi perso man mano quel rapporto quasi fideistico che spesso si ha con questo metodo, è così?
Credo fermamente, ancora oggi, nel “prima conoscitori, poi storici”, rivendicato da Pietro Toesca. Si parte dall’opera d’arte per ricostruire il tessuto della storia. Tuttavia, nella deriva post-longhiana e nella pressione del mercato antiquario «si tende a spacciare per storia quello che è classificazione filologica e caccia all’inedito». Sono parole piuttosto critiche di Federico Zeri, che condivido.
Perché ha scelto di dedicare una cospicua parte dei suoi studi al tema del paesaggio? Da dove nasce questo interesse?
Non ho mai affrontato il paesaggio come un genere della pittura, magari secondario. Mi è sempre apparso come un tema cruciale per la poetica di alcuni artisti. Per Adam Elsheimer, ad esempio, quel cielo di stelle della sua Fuga in Egitto del 1609, ambientata eccezionalmente in una notte di luna piena, diventa il manifesto di un rapporto stringente e molto precoce con la nuova scienza, il canocchiale, le scoperte di Galileo. Un mondo nuovo che soltanto il paesaggio, un paesaggio di cielo – non la pittura di figura – era in grado di esprimere.
Ricorda qual è stato il primo paesaggio naturale che l’ha emozionata?
Lo ricordo benissimo. Era il 1958, studentessa alle prime armi. Viaggiavo, non so per quale miracolo, sulla macchina che portava Roberto Longhi e altri studiosi verso la mostra milanese “Arte lombarda. Dai Visconti agli Sforza”. Nella nebbia, fra i campi, si attraversava la valle padana, non ancora solcata dall’Autostrada del Sole. Guardando fuori dal finestrino, Longhi, incantato, disse: “Così bello … la migliore propedeutica ai grigi velati dei paesaggi del Foppa”. Coglieva in poche parole il senso del naturalismo lombardo, quella visione alternativa al Rinascimento fiorentino.
E quale considera oggi il suo paesaggio dell’anima?
Da Poussin a Thomas Jones a John Robert Cozens a Granet a Ruskin, sono tanti i miei paesaggi dell’anima… ma un’emozione misteriosa e profonda mi prende davanti alle foreste e ai prati di Vallombrosa filtrati dallo sguardo di Louis Gauffier. Intatti, ancora oggi, nella realtà.
Ha dedicato molti studi a Ruskin, confluiti nell’importante mostra a Venezia del 2018. Cosa la affascina di questo artista?
Credo che quella mostra, voluta da Gabriella Belli, abbia portato in ribalta, oltre alla meraviglia del lascito di Ruskin come pittore, l’attualità del suo pensiero politico e sociale. Nel lessico figurativo di Ruskin (foglie, montagne, conchiglie, nuvole, cieli, Venezie …), landscape ha implicazioni più vaste di quello che per noi è paesaggio. Coincide con l’idea di Natura e ha la centralità che ritroviamo in Leopardi, Shelley, Keats, Friedrich e Turner. Una “religione della bellezza” che la scrittura intendeva eternare, da Oscar Wilde a Walter Pater, da Henry James a Virginia Wolf.
Lei ritiene che siano i pittori e gli artisti a creare davvero il paesaggio e l’immaginario, sostiene che il nostro sguardo verso la campagna romana o nei confronti di Venezia non sia più lo stesso da quando le hanno dipinte Poussin e Turner, per non dire della montagna Sainte Victoire di Cézanne…
Il paesaggio dipinto è sempre paesaggio di idee, non specchio della realtà. L’artista stralcia dalla natura segmenti del suo DNA e li rende a tal punto ‘visibili’ da modificare la nostra percezione. Così Venezia, città disegnata e tangibile ancora nelle vedute di Canaletto, è per noi immagine liquida e immateriale da quando, nell’Ottocento, Turner ne ha còlto l’onirica bellezza. Dico per noi e per tutti, da Monet a Klimt, da Debussy a Thomas Mann.
Il paesaggio italiano è cambiato rapidamente in pochi decenni dal dopoguerra in avanti, quando si ricostruì un paese ferito con pochi piani e troppo cemento; Paesaggio costituzione cemento per richiamare un noto libro di Settis “contro il degrado civile”. È messo così male il paesaggio italiano oggi? Davvero sopravvive solo in “lacerti disarticolati” come ci ha detto Paolucci nell’intervista fatta per questa rubrica?
Sono, per temperamento, ottimista e cerco conferme di una “amistà”, come scriveva Vasari, ancora possibile fra uomo e natura nel territorio italiano fortemente antropizzato. Certo l’Italia non è più “stupendamente ‘vuota’ … e litorali vergini come quando Palinuro cadde nell’acqua azzurra da una nave virgiliana”, così scriveva Arbasino (I viaggi perduti, 1985 ndr). Ma basta uscire dalle autostrade per incontrare pezzi di mondo intatti, dalla Maremma ai borghi dell’Appennino. Anche nelle città: a Bologna, per esempio, il tessuto scenografico del centro storico è stato salvato, e pure il verde delle colline a ridosso della città, grazie a interventi illuminati come il piano regolatore del 1969, promosso da fior di urbanisti.
In una celebre e bellissima lettera del 1944 Longhi scriveva a Briganti facendosi un esame di coscienza a proposito del bombardamento di Genova e delle responsabilità dei critici e degli storici dell’arte. “Se qualcuno di noi avesse steso in tempo il racconto chiaro e lucido dell’arte genovese… se verità consimili fossero giunte in tempo a circolare… nei seminari di Oxford e di Harvard, chissà se la Warspite e la Ramillies non avrebbero… mirato su Genova con maggiore garbo e pulizia?”. Forse anche per il paesaggio si sarebbe dovuto fare di più, raccontarne meglio l’unicità.
E’ una lettera che ho letto mille volte ai miei studenti, come viatico per il nostro mestiere. Sono parole in cui voglio credere. Pensi a Venezia. Quando Ruskin scrive i quattro volumi delle Stones of Venice – per documentarsi, traversando le Alpi, compie undici viaggi in Italia – la città era fatiscente, travolta dalla crisi economica della sua classe dirigente. La Ca’ d’Oro veniva picconata e utilizzata come cava di pietre. Si era smarrito il senso dell’unicità di Venezia, gotica e bizantina, medievale e anticlassica. La città rischiava di essere cancellata per la sua anomalia e “rimessa a norma” secondo i criteri della modernità: i canali interrati, la ferrovia, perfino un ponte pensato per unire Palazzo Ducale all’isola di San Giorgio. La battaglia di Ruskin per salvare Venezia dalle demolizioni, i restauri aggressivi e l’omologazione alle altre città, dà voce a una nuova società consapevole, William Morris in primis, che infine arriva a promuovere il riscatto della città più fragile e bella nel mondo.
“C’è qualcosa d’immorale nel non voler soffrire per la perdita della bellezza, per la patria rotolante verso chi sa quale sordido inferno di dissoluzione, non più capace di essere lume nel mondo” scriveva Guido Ceronetti in Un viaggio in Italia (1983). Ieri Ceronetti, Pasolini, Cederna, Bassani, Zeri e molti altri lottavano contro la distruzione del paesaggio, erano profondamente impegnati in battaglie civili che sentivano urgenti e inscindibili dal loro mestiere di critico, storico o scrittore. Oggi, a parte alcuni singoli che si battono ancora tra pamphlet, saggi e ospitate televisive, sembra non sia una priorità degli intellettuali. Si è persa la vocazione civica di questo mestiere?
Direi di sì. Negli studi mi sembra ci sia un moto verticale – il sait tout et rien – che fa perdere di vista anche il senso civile come dice lei. C’è stato un momento di totale distacco dell’università dalla realtà, e le nostre facoltà umanistiche ancora di più. Oggi però io credo che ci sia una ripresa di una coscienza civile, soprattutto nei più giovani c’è un’attenzione per l’ambiente molto forte.
In Una panchina a Manhattan (Adelphi 2019) ha raccontato l’importante stagione delle mostre a partire dagli anni Settanta, quando “le grandi esposizioni internazionali riscrivevano le mappe (e rivoluzionavano la conoscenza) del mondo dell’arte, rivelando universi visivi fin lì nascosti, scatenando passioni e polemiche, ma alla fine guidando, molto più della critica o dell’accademia, le evoluzioni del gusto.” Come racconterebbe quella grande stagione che ha vissuto a un giovane studioso di oggi che invece guarda con sospetto all’evento-mostra?
Il punto cruciale a mio parere è che quando le mostre sono cominciate c’era questa esigenza di far coincidere la ricerca con la comunicazione. Quindi le mostre proponevano sempre qualche artista che nessuno di noi conosceva così bene, con un numero tale di opere che neppure il pittore stesso poteva aver mai visto tutte insieme. E questo costituiva un momento prezioso per studiare, per capire, per compiere nuove scoperte. Oggi le mostre hanno altre finalità, spesso puramente commerciali. Io non sono del tutto d’accordo sul fatto che il museo debba andare sempre incontro alla gente. Non la penso come Mario Bortolotto che diceva di lavorare per il due per mille (cioè per due persone su mille), ma ritengo che si debba andare incontro al pubblico cercando però di alzare il livello. Bisogna dare gli strumenti perché si avvicinino a Mozart, non puoi tradurlo in maniera spicciola. Anche agli Uffizi, per esempio, tu hai una struttura progettata dal Vasari e hai insieme Botticelli con la Nascita di Venere e la Primavera, perché facevano parte di questo environnement per Lorenzo di Pierfrancesco dei Medici, ma perché devi disfarlo per permettere ai turisti di farsi un selfie di fronte al quadro uno alla volta?
I musei sono infatti oggi sotto accusa, spesso antiquati e respingenti, chiamati a rispondere alle moderne necessità di decolonizzazione e di inclusione. Già nel 1958 Guido Piovene scriveva in Idoli e ragione che “l’essere antimuseo è di moda […] Il feticismo dell’ambiente, il sofisma che l’opera d’arte disambientata non esiste più, spinti alle ultime conseguenze ci condurrebbero a concludere che non esiste sulla terra nessuna opera d’arte fuorché quelle dei contemporanei […] nella maggior parte dei casi è cento volte meglio per l’opera d’arte il museo, che il palazzo per cui fu fatta, spesso buio, segreto e fuori dalla vita pubblica”.
Manganelli scriveva invece che i musei sono il frutto di «una macchinazione, una prepotenza, una frode»; sosteneva inoltre che allestire una pinacoteca «non è più sensato che fare abitare tutti i Giuseppe in un solo quartiere di una città» (Emigrazioni oniriche, 2023). Quale delle due prese di posizione condivide?
In queste affermazioni c’è una verve dissacrante. Quale condivido? La storia è andata così. I nostri musei nascono dalle soppressioni napoleoniche dei beni ecclesiastici, dalla acquisizione da parte dello Stato di quei beni, dalla esigenza di salvare quella produzione sacra che, espiantata dalle chiese e dai conventi, veniva riproposta a un pubblico allargato. Certo, nei musei, la percezione è diversa, l’ordine è nuovo, ma le opere si sono salvate e hanno conquistato una seconda vita. Il museo poi deve necessariamente aprirsi alla società; negli Stati Uniti se tu non fai ‘education’ non hai accesso ai fondi, ed è molto giusto.
“Il meglio del museo sono le sue finestre”, in un passaggio del suo libro (Una panchina a Manhattan) lei cita questa frase di Bonnard. Cosa intendeva dire?
Sono parole provocatorie, vanno ricondotte a quei giorni lontani quando gli artisti decisero di raccontare “la vie moderne”, la realtà, il fuori, scrollandosi di dosso il peso del passato, the burden of the Past, il confronto con i modelli canonici e schiaccianti dell’Antichità.
Nello scorso secolo la lingua della storia dell’arte e della critica d’arte, pur non avendo caratteri omogenei e differenziandosi molto tra i vari autori, possedeva generalmente tratti più alti e letterari, era una lingua ricca, spesso mossa da un tentativo di restituire o tradurre la bellezza e la complessità dell’opera d’arte nel testo scritto. Questa lingua ha raggiunto i suoi vertici con Longhi, Testori, Brandi, Arbasino e altri, ma oggi la scrittura della storia dell’arte sembra tendere a un linguaggio più asettico, tecnico, scientifico e anti-letterario, privo di afflati. Nei suoi libri, saggi e articoli c’è invece sempre un’attenzione alla parola, al ritmo della lettura, uno slancio letterario che non scivola però nel sofismo o nell’estetismo, ma è sempre funzionale allo scritto. Cosa pensa del valore della scrittura per uno storico dell’arte?
Per queste sue parole la ringrazio. Lei ha citato modelli inattingibili di una lingua folgorante e creativa. Non credo si possano imitare. Credo però fortemente nella interpretazione dell’opera come reinvenzione nella scrittura. “Creazione – scriveva Oscar Wilde – in un’altra creazione”. Scrittura come decifrazione e ricostruzione linguistica dell’opera dipinta. E’ questa la sfida che accomuna i critici d’arte e quelli di musica. Trovare parole per esprimere ciò che parola non è. Parole scelte naturalmente, funzionali, necessarie.
Gli scrittori più acuti a volte colgono delle cose degli artisti che sfuggono allo storico dell’arte? Penso a quanto scritto da Arbasino a proposito di Correggio o Parmigianino.
Scrittori, ma anche musicisti, da angolazioni diverse, colgono dettagli che concorrono alla percezione del paesaggio come Natura. Paradossalmente si potrebbe dire che, in molti casi, il paesaggio reale sia stato ‘plasmato’ anche da quelle penetranti letture.
La critica d’arte ha lungamente trovato dimora sulle colonne dei giornali, dove aveva una forte vocazione pubblica. Lei stessa ha scritto moltissimo su La Repubblica, Il Venerdì, Il giornale dell’arte etc. Oggi sono rare le pagine dei quotidiani dove trovano spazio analisi approfondite serie e appassionanti, e ancor più in generale è raro trovare una critica sincera che non sia solo una ruffiana lusinga ad amici e colleghi.
La mia generazione ha vissuto una stagione appassionante. Intervenire sui giornali voleva dire, di fronte a un largo pubblico, esporsi con proposte soggettive. Erano spazi di approfondimento, di discussione. Oggi il tempo della lettura si è molto ridotto. Al giornale, con qualche eccezione, si chiede la notizia, una cronaca costruita spesso sulle veline di mostre e di libri. Non sto parlando di appiattimento. Succede che, nei cambiamenti accelerati che stiamo vivendo, un certo tipo di critica cerca oggi altri spazi e migra verso altri canali.
Lei inoltre non si è mai tirata indietro dallo scrivere anche per il grande pubblico.
Pensi cosa sono stati i Fratelli Fabbri (la collana I maestri del colore): la lista degli artisti la faceva Longhi, erano stampati con foto magnifiche, le Skira svizzere, e poi si costringevano gli specialisti a scrivere poche cartelle facendosi capire. È stato qualcosa che ha cambiato la storia dell’arte prima dei manuali. Alberto Martini mi chiese di scriverne qualcuno, mi propose Annibale Carracci, ma rifiutai perché non volevo essere irregimentata, da bolognese non volevo studiare solo i bolognesi. Così feci Georges de la Tour, La pittura barocca e altri.
E l’approdo in Adelphi?
Io avevo sempre sognato di pubblicare su Adelphi, ma loro non comprendevano immagini. Quando Bortolotto pubblicò Fogli multicolore, appresi con stupore che lo aveva dedicato a me. Me lo mandò Calasso con un biglietto con su scritto “ad Anna, presto adelphiana”. Fondò quindi la collana Imago, nella quale sono previste molte immagini e così pubblicai lì Terre senz’ombra (2015). Mi ricordo che quando chiesi a Carlo Ginzburg di riguardarmi alcuni titoli del libro lui mi domandò con chi avrei pubblicato, e alla mia risposta disse: “Adelphi? Un editore così asburgico!”. Abbiamo riso. Lo incontrai dieci giorni dopo al mercato del pesce e mi disse: “sai, sono stato da Calasso e ci siamo capiti benissimo.” Calasso gli ha ripubblicato tutta l’opera, è stata una consacrazione.
Che persona era Calasso?
Secondo me era una persona di una sterminata apertura mentale. Dava sempre una chiave in più nelle sue letture per entrare dentro a qualcosa, che fosse un pittore o uno scrittore. Adelphi era Calasso. Mi ha molto stupito che abbia voluto farsi seppellire a Venezia, nel cimitero di San Michele, vicino al suo amico Brodskij.
Nelle Interviste impossibili Manganelli intratteneva dei colloqui con illustri trapassati, da Fedro a Gaudì. Se potesse, quale intervista impossibile farebbe?
Forse Galileo, nella sua solitaria grandezza.
Restando nella fantasticheria: Rosenberg in un incendio del Louvre potendo scegliere una sola opera salverebbe il Diluvio di Poussin. Lei nella Pinacoteca di Bologna quale salverebbe?
Non a Bologna, ma al MET di New York salverei la Maddalena Wrightsman di Georges de La Tour, come faceva la Sirenetta nel film di Walt Disney, che quella Maddalena teneva nascosta fra i suoi tesori nel fondo del mare.
Quale considera la sua scoperta più importante?
Per carità, non mi attribuisco scoperte da ricordare. Certe ricerche, pubblicate sul Burlington Magazine, hanno forse aperto una strada, in un dialogo che coinvolse Benedict Nicolson e Ernst Gombrich (Elsheimer e Galileo, nel 1976), e poi Robert Rosenblum, che nel 1992 mi regalò la sua approvazione su un dipinto famosissimo del catalogo di David, Le jardin du Luxembourg che nuovi studi riconducevano, a mio parere, a Louis Gauffier. Molto speciale fu in quella occasione la disponibilità del Louvre (in sintesi del suo direttore Pierre Rosenberg) di consentire un confronto all’americana fra i vari dipinti ‘indiziati’, fatti arrivare a Parigi anche dai musei di provincia.
E il suo libro migliore?
Non ho il distacco che ci vorrebbe per dare una risposta credibile. Posso dire che alcuni studi (I paesaggi della ragione, Il Settecento e l’antico, Felice Giani e la Roma di fine secolo, Il diario di Thomas Jones; Una panchina a Manhattan) e alcune esposizioni che ho curato (Paysages d’Italie; Montagna Arte e Scienza; Granet, la natura romantica; John Ruskin), stimolando entusiasmi ogni volta diversi mi hanno aiutato a rigenerare il metodo, per un effetto di spaesamento che considero salutare. Si ricomincia, con altre chiavi.
Una emozione da ricordare?
La legion d’onore nel 2001, dopo l’esposizione che avevo curato al Grand Palais di Parigi (Paysages d’Italie) e poi il titolo di Officier dans l’Ordre des Arts et des Lettres che il ministro della cultura Frédéric Mitterand mi ha conferito nel 2011 nella corte del Castello di Fontainebleau. Ma l’emozione che non dimentico viene da Béatrice Rosenberg che, con leggerezza e ironia, mi annunciò che ero stata accolta nel particolarissimo CAM, il Club di Admiration Mutuelle, fondato e gestito da Monsieur e Madame Rosenberg!

Terminata la nostra lunga conversazione, Anna Ottani Cavina ci tiene ad accompagnarci alla Fondazione Zeri per mostrarci la fototeca, il loro modus operandi e il dietro le quinte dell’istituto. Con la sua macchina “tutta incerottata” ci guida per la città, continuando a raccontare aneddoti su Arbasino, Zeri, Eco e molto altro, con un brio e un gusto da rendere ogni dettaglio vivido, luminoso, in un flusso di coscienza joyciano tale che, riascoltando l’audio dell’intervista, sembra di attingere direttamente alla scaturigine del suo pensiero e di quei racconti.
