Bartolomeo Bassante o Passante, Pietro Beato, Joan Do: ancora sul Maestro degli Annunci ai pastori
VIVIANA FARINA
L’Adorazione dei pastori firmata «Bassante»: agli albori del dibattito critico
Nel nucleo dei dipinti secenteschi di area napoletana delle collezioni del Museo del Prado figura anche un’Adorazione dei pastori in formato cosiddetto «da stanza» (inv. P000047; fig. 1)1 Olio su tela, 99 x 131 cm. .
Proveniente dalla raccolta reale di Elisabetta Farnese, il quadro apparve in prima battuta (1746) sotto il nome del genovese Giovanni Benedetto Castiglione il Grechetto (1609-1664)2 Era il n. 763 dell’elenco dei dipinti conservati a La Granja. Per la trascrizione del documento citato https://www.museodelprado.es/coleccion/obra-de-arte/adoracion-de-los-pastores/851a6126-0a06-4cae-8916-df495501b092?searchid=fd4aa52f-de1f-6a66-f296-12ebca76eb2e.. Il dato attributivo ha sollevato perplessità, senza che si sia supposta la semplice svista da parte del compilatore del documento, tratto forse in inganno dall’assegnazione al Castiglione della tela allora in coppia con l’Adorazione dei pastori nella sede de La Granja: il Sacrificio di Noè (inv. P002314), questo sì effettivamente rapportabile alla cultura del Grechetto3 Il quadro, che nel 1746 era il numero 762, messo dunque in lista per primo, facilitò l’errata ripetizione del nome genovese anche nel caso del Bassante. L’attuale attribuzione ad Andrea De Leone (1610-1685) è altrettanto da emendarsi: (scheda, ove non appare, tuttavia, alcuna referenza al dipinto di Bassante). Si tratta, infatti, di un’opera tipica della piena maturità di Niccolò De Simone (?-1656). Così la pubblicò già Spinosa 1984, tav. 286.. Di fatto, a soli vent’anni di distanza, nella Testamentaría della medesima regina borbonica (1766), l’Adorazione dei pastori compariva correttamente come «de Bartolome Basante», in rispetto dell’iscrizione in caratteri corsivi «Bartolomeo Bassante / F.» tutt’oggi visibile in basso a sinistra4 Cfr. link nota 2. . Non pare, dunque, ragionevole sospettare che un siffatto nome di artista, così poco noto, soprattutto nel XVIII secolo, fu aggiunto nel breve arco di tempo che separa i due elenchi dei beni di proprietà della sovrana5Questa, invece, l’ipotesi di Spinosa 2000, pp. 180-181. .
Il P000047 – lo vedremo – spetta, in realtà, ad un’altra mano napoletana. Ma grazie alla sopramenzionata iscrizione – più che una firma – esso ricopre da lungo tempo un ruolo centrale nell’annoso dibattito storico-critico riguardante l’identificazione del cosiddetto Maestro degli Annunci ai pastori6Per la bibliografia essenziale relativa alla tela, si rinvia, ancora una volta, al link di nota 2. . Una questione che, all’incirca nel periodo 1630-1656, vede il coinvolgimento di altre tre personalità artistiche – Bartolomeo Passante, Pietro Beato, Joan Do – i cui nomi sono giunti fino a noi tramandati da fonti e documenti, sebbene non se ne possa ricostruire in via inconfutabile l’attività materiale, fatta esclusione per l’ultimo dei pittori evocati.
La recente pubblicazione di un volume monografico intitolato al Maestro dà l’occasione di ripercorrere gli aspetti principali dell’intricata vicenda e di offrire ulteriori nuove argomentazioni a riguardo7 Spinosa 2021. Da questo momento in poi, ogni opera schedata nel testo, verrà indicata con il semplice numero di catalogo ivi assegnato. .
Il dipinto da cui prendiamo le mosse reca il nome di un certo Bartolomeo Bassante. Eppure, alla fine del XVII secolo, l’attento narratore delle bellezze di Napoli, Carlo Celano, ricordava come opera «di Bartolomeo Passanti nostro Napolitano» («Passanti» con «P», dunque), seguace di Jusepe de Ribera (1591-1652), un’Adorazione dei pastori conservata nella chiesa di San Giacomo degli Spagnoli e di cui oggi si sono perse le tracce8 Celano 1692, V, p. 43. . La notizia veniva ripresa nel secolo successivo da Bernardo De Dominici, il quale, a chiusura della Vita di Ribera, dedicava alcune righe al Passante, pittore incluso tra gli epigoni dello Spagnoletto e dai modi fortemente confacenti lo stile del maestro9 De Dominici [1742-45], 2008, III, I, p. 40. .
Al principio del XX secolo, Pedro de Madrazo (1816-1898), catalogatore delle collezioni del Prado, era il primo, in territorio iberico, a richiamare l’attenzione sulla possibile identità tra l’artista «Bassante (Bartolomeo) ó Passante», titolazione che si rintraccia nell’intestazione della breve scheda da lui redatta per l’Adorazione dei pastori10Cfr. ultra a nota 12. . Sebbene de Madrazo non lo espliciti, deduciamo che giunse a tale conclusione solo dopo avere usufruito delle notizie di De Dominici, come dell’allora fresco contributo documentario dell’erudito Lorenzo Salazar11 Salazar 1897., dal momento che il nome di «Passante» non appare nell’edizione del catalogo del Prado del 1872, bensì solo a partire da quella del 190012De Madrazo 1872, p. 32, cat. 57; De Madrazo 1900, p. 11, cat. 57. Entrambi i punti non risultano chiari a Porzio 2014, p. 71. . D’altronde, la sede nella quale Salazar aveva da poco edito il processetto matrimoniale di Bartolomeo Passante – documento su cui torneremo – ovvero Napoli Nobilissima, la rivista fondata nel 1892 tra gli altri da un pensatore della levatura di Benedetto Croce (1866-1952), era allora un osservatorio d’eccellenza per lo sviluppo e la conoscenza della storia dell’arte a Napoli e nell’Italia Meridionale.
Fu però l’ispanista August L. Mayer, tra i primi esegeti di Jusepe de Ribera, ad aprire il vero dibattito critico, attribuendo al Passante menzionato da Celano alcuni quadri13 Mayer 1923, pp. 176-77. , tra cui l’Annuncio ai pastori inv. 1949P7 del Museo di Birmingham, allora presso M.H. Spilmann a Londra, tradizionalmente riferito a Velázquez, ma presto divenuto un perno fondante del catalogo del cosiddetto Maestro degli Annunci14 Spinosa 2021, cat. A15. .
Quanto, invece, alla sopra menzionata Adorazione dei pastori del Prado firmata «Bassante», non potendo in essa ravvisare quei caratteri ribereschi che le fonti sottolineavano quali tipici del pittore Passante, Mayer deduceva di trovarsi dinnanzi ad un’opera dalla datazione posteriore. L’unificazione tra le due pressoché omonime figure artistiche era, dunque, compiuta. E questa fu l’idea anche di Roberto Longhi, il primo ad ampliare il catalogo di Passante alias il Maestro della tela di Birmingham15 Longhi 1935, p. 17; Longhi 1969, pp. 50-52. , e poi di Jesús Hernández Perera16Hernández Perera 1955; Hernández Perera 1957. .
Frattanto, Ulisse Prota Giurleo, rivoltosi a nuove ricerche di archivio, si appassionava sia alla persona di Bartolomeo Passante che a quella del maestro di questo: Pietro Beato17 Prota Giurleo 1954. . Nel 1897 Salazar aveva rinvenuto, nei registri della parrocchia della Carità (poi San Liborio), la fede di matrimonio celebratosi, il 4 maggio 1636, tra Bartolomeo Passante da Brindisi e Angela Formichella napoletana. Dal relativo processetto matrimoniale, conservato presso gli archivi della Curia, risultava poi che lo sposo aveva diciotto anni, dunque nato sul 1618, e che la moglie, quattordicenne, era la nipote del pittore Pietro Beato. Questi, testimone di nozze, era la persona con la quale Passante, residente a Napoli da sette anni, conviveva e lavorava da cinque, in una casa afferente alla parrocchia di Sant’Anna di Palazzo. Prota Giurleo poteva così rilevare come dai tempi di tali ritrovamenti documentari la dizione del cognome del pittore si fosse alterata da Passante in Bassante. E ciò a causa della firma rintracciabile sul quadro del Museo del Prado, che bensì andava giudicata falsa, visto che nessun pittore di nome Passante «firmerebbe un suo quadro, manu propria, Bassante». D’altro canto, l’Adorazione dei pastori, per quanto egli potesse constatare dalla foto giunta da Madrid, non presentava affatto i tratti ribereschi distintivi dello stile del Passante di cui avevano raccontato Celano e De Dominici, né «nel componimento e mossa delle figure», né «nel tremendo impasto del colore»18 Ivi, pp. 135-38. .
Anche l’attribuzione al Bassante andava dunque scartata, trattandosi piuttosto di una tela «di epoca posteriore», così come aveva già concluso il Mayer nel 1923. Passaggio, questo ultimo, che deve farci intendere come Prota Giurleo forzasse gli intenti dello studioso tedesco, mal interpretando il testo originale19Mayer 1923, pp. 176-77: «Die Bassante signierte Anbetung der Hirten im Prado lasst nicht mehrviel von dem Riberacharakterder Werke diesesKunstlers erkennen, es muss offenbar eine Arbeit aus seiner spateren Zeit sein»; lì dove la presenza dell’aggettivo «seiner», «suo», rende evidente che Mayer si stesse riferendo ad un medesimo maestro. Più ambigua la traduzione offerta da Prota Giurleo 1954, p. 136 («Il Bassante, segnato, Adorazione dei pastori al Prado n. 47, non fa riconoscere il carattere di Ribera in quest’opera, che sarà evidentemente d’un epoca posteriore»), che dava adito al dubbio di un’assegnazione della tela ad un maestro di una generazione successiva già da parte di Mayer. . Quanto al Passante, l’erudito napoletano poteva rendere noto anche l’anno di morte del pittore, il 1648, quando Bartolomeo aveva trent’anni; e del maestro Beato, grazie a ulteriori scoperte archivistiche, stabilire che, in qualità di testimone alle nozze del 1636, era allora un uomo di trentacinque anni – dunque nato nel 1601 – e che fosse poi morto nel 1653.
Poco dopo, al quadro del Prado non accennava Ferdinando Bologna in uno smilzo affondo dedicato a quell’affascinante pittore divenuto oramai à la page e che lo studioso, per primo, denominava il «Maestro degli Annunci ai pastori [«Annunci» e non «Annuncio», come in più luoghi riportato da altri20 Spinosa 2021, passim. ], ossia il così detto Bartolomeo Passante, sul quale, oltre i vari accenni del Mayer, va riscontrata soprattutto l’importante apertura del Longhi…»21 Bologna 1955, p. 55, nota 1. . Frase, questa, che consente di comprendere come Bologna tra le righe intendesse dire che colui che negli studi si andava allora identificando in Passante, egli preferiva piuttosto chiamarlo Maestro degli Annunci ai pastori.
Un pensiero che emerge chiaro da un successivo intervento del medesimo studioso, decisivo per il corretto inquadramento culturale dell’opera del Prado, nonché del suo autore e dell’anonimo Maestro22 Mal interpreta Porzio 2014, p. 80, nota 13, quando afferma che «alla tesi di identità tra l’anonimo maestro e Passante sembra accedere in un primo momento anche Bologna (1955, p. 55 [nota 1] …)». .
Era il 1958, l’anno in cui Bologna dava alle stampe il Francesco Solimena23 Bologna 1958. , tutt’ora da giudicarsi la più significativa delle ricerche intitolate alla stella del Barocco europeo, segnatamente in confronto ai recenti sforzi di redigere una aggiornata monografia24Spinosa 2018. . De Dominici aveva lucidamente coniato la definizione di «tremendo impasto» per alludere – lo si chiarisce al lettore meno addentrato nella materia – al Naturalismo estremo, dai tratti ‘espressionisti’, sviluppatosi a Napoli in risposta alla pittura materica di Ribera. In tale corrente – spiegava Bologna – trovavano posto Francesco Fracanzano (1612-1656) e l’autore del gruppo di opere che andavano sotto il nome di «Bartolomeo Passante; per intenderci, del pittore che io preferisco rinominare il ‘Maestro degli Annunci ai Pastori’»25 Bologna 1958, p. 18. .
Fu questo – si espone poco più avanti – un artista attivo almeno dal 1630/1631, dall’indirizzo pittorico ben distinto da quello dell’autore dell’Adorazione dei pastori, firmata, del Museo del Prado. A torto Prota Giurleo aveva sospettato la falsità dell’iscrizione, in quanto era possibilmente questa l’opera del vero Passante. Ovvero, non il pittore particolarmente dedito ai soggetti pastorali su cui si erano soffermati Mayer e Longhi, ma colui che, grazie ai documenti, si era scoperto originario di Brindisi e di soli diciotto anni nel 1636. Questa seconda personalità, a giudizio di Bologna, si espresse in termini «affini» a quelli di Antonio De Bellis (1610 ca- notizie fino al 1660), mostrando una fisionomia attestante una formazione maturata tra il 1635 ed il 1640, in parallelo con Agostino Beltrano (1607-1656) e Domenico Gargiulo (1609/10-1673); con caratteri ereditati dai modi di Massimo Stanzione (1585/1590-1656) e risultati simili a quelli proposti da Bernardo Cavallino (1616-1656)26 Ivi, p. 31. .
Saltiamo momentaneamente alle conclusioni e asseriamo che si tratta ancora della lettura stilistica meglio adeguata al n. P00047 del Museo del Prado27 L’analisi di Bologna appare interamente parafrasata in Porzio 2014, p. 31. In precedenza, Causa 2007, pp. 97-98, aveva proposto la presenza di un «fiduciario di Antonio De Bellis». Anche N. Spinosa in Napoli 2009, I, pp. 211-12, cat. 1.106, si era mostrato favorevole al nome di De Bellis, da ultimo pienamente sostenuto (Spinosa 2021, cat. D44). . Con evidenza, un’opera della mano di Antonio De Bellis che, nonostante il formato modesto della tela, sembra essersi parzialmente avvalso di un collaboratore, dai modi in buona sintonia con quelli di Agostino Beltrano. Si sarà sul 1650. Sulla questione della firma, invece, si tornerà oltre.
In definitiva – nel pensiero di Ferdinando Bologna – il cosiddetto Maestro degli Annunci andava inquadrato nella generazione che precedette di almeno dieci anni gli inizi di Passante. Quali conclusioni potevano trarsi? Si era davanti a uno strano caso di omonimia oppure a un equivoco generato dal Celano e da questi passato in De Dominici? Bologna non poteva al tempo fornire ulteriori risposte, se non ribadire che ogni informazione dispensata dal biografo circa Bartolomeo Passante si attagliasse piuttosto alla perfezione allo stile del Maestro degli Annunci28Bologna 1958, pp. 31-32. . Ed è in tale specifico passaggio che, nel redigere un elenco di nuove attribuzioni, Bologna si riferisce al Maestro chiamandolo «pseudo-Passante».
Da più parti si è invocata una presunta confusione generata dallo studioso. Ma a leggere con attenzione, tale nomenclatura era adottata al fine esclusivo di ribadire che il pittore descritto da De Dominici non andasse sovrapposto al Passante giunto a Napoli da Brindisi29 Ivi, p. 32. . Come è da riconoscersi, nel momento in cui a questo più giovane maestro venga ridato il giusto volto. Ma pazientiamo ancora un momento.
Veniamo prima al problema della presunta firma, che ha visto negli anni le più rocambolesche esplicazioni. Anche in virtù dell’esistenza di un Matrimonio mistico di santa Caterina (di ubicazione sconosciuta) iscritto per esteso «Bartolomeus Basa/nte Pinsit», anche stavolta con «B» e non «P», su cui torneremo.
Alfonso Emilio Pérez Sánchez avanzò più di una ipotesi circa il quadro del Prado, per poi concludere che «la grafia de la firma, que se lee claramente “Bassante” … es original y no se debe a restauracion o modificaion alguna»30 Madrid 1985, pp. 74-75, cat. 6, con il rinvio a precedenti interventi da parte dello stesso Pérez Sánchez..Tanto più non si intende come Nicola Spinosa abbia potuto affermare che tale «firma» sia, invece, verosimilmente da ritenersi il frutto di una trascrizione, secondo da lui appreso da una conversazione intrattenuta con un (non meglio identificato) restauratore del Museo del Prado. Questi gli avrebbe riferito «che il nome del presunto autore segnato sulla tela in argomento risultava dipinto al di sopra dello strato di vernice originario»31 Si veda: Spinosa 2000, pp. 179, 181; N. Spinosa in Napoli 2009, I, p. 212.. La medesima informazione è stata anche riportata da altri, sostenendo, tuttavia, che la firma in oggetto non poggerebbe sullo strato più antico della vernice32 Porzio 2014, p. 73. . Da ultimo, per Spinosa, la firma fu aggiunta «sopra un nuovo strato di vernice (come ha dimostrato un recente restauro)»33 Spinosa 2021, p. 19. .
Chiariamo innanzitutto, come non si evince da quanto appena riferito, che se la firma fosse autentica avremmo dovuto rintracciarla al di sotto della vernice originaria. Sembra, in qualsiasi caso, necessario precisare che: 1. il Museo del Prado non conserva alcuna documentazione comprovante le affermazioni dello studioso; 2. che il restauro più recente della tela n. 47 risale all’anno 1984, dunque all’anno precedente la mostra sulla pittura napoletana organizzata da Pérez Sánchez, il quale rilasciava tutt’altro genere di parere; 3. che nel report di restauro disponibile negli archivi del Museo non compare alcuna specifica menzione dell’iscrizione.
Qui si ritiene che questa ultima presenti caratteri morfologici tipici del XVIII secolo, tantomeno comparabili con quelli della seconda scritta rintracciabile nel Matrimonio mistico di santa Caterina sopra menzionato34 Lo rileva già Porzio 2014, pp. 72-73. . Essa va, quindi, giudicata postuma e falsa, per dirla con Prota Giurleo. La lectio facilior, nonché la logica suggeriscono di credere che il nome dell’artista sia stato vergato a Napoli, prima che il quadro entrasse nelle collezioni di Elisabetta Farnese, presumibilmente a lei procurato per il tramite di un intermediario del figlio Carlo III, nel 1746 ancora re di Napoli. Come detto in apertura, l’ipotesi che la prima, errata attribuzione al Grechetto si giustifichi con la presunta assenza di tale iscrizione fino al 1774, quando il dipinto venne poi schedato come di Bartolomeo Bassante, non è da prendersi in alcuna considerazione35 Confida, piuttosto, in questa ipotesi Id., ivi, p. 73 . Basti, piuttosto, ricordare che gli inventari antichi presentano frequentemente errori dovuti a semplici distrazioni generatesi nel corso della dettatura.
Ad ogni modo, dal momento che l’Adorazione dei pastori non può tenersi nel gruppo stilistico oggi riferibile al Bartolomeo Passante nato nel 1618 e di cui renderemo debito conto, è lecito sospettare che il falso riferimento al Bassante/Passante fu ideato al momento in cui la tela lasciò la città d’origine, ossia Napoli. Verosimilmente, non ai fini dell’inganno, ma forse tratti in confusione da quel tema – l’Adorazione dei pastori – ricorrente nella fama del Bartolomeo Passante di cui aveva scritto Bernardo De Dominici. Non si dimentichi, infatti, che, pressappoco a un tempo con l’acquisizione dell’opera alle collezioni reali spagnole, Le Vite erano un testo fresco di stampa (1742-1745).
Prima di esporre la più recente tesi sulla possibile identità da assegnare al Maestro degli Annunci dei pastori, vi è un altro punto su cui ci si vuole soffermare a latere. Ovvero che priva di riscontro resta la comune diceria delle fonti antiche circa la fama di eccellente copista di Ribera che spetterebbe a Bartolomeo Passante. Questa l’idea di Celano e poi di De Dominici. Ma, prima ancora, di Pietro Andrea Andreini, l’inviato a Napoli dello storiografo fiorentino Filippo Baldinucci, nonché primo autore in assoluto a registrare, nella celebre Nota del 1675, l’esistenza di «Bartolomeo Passante [che] imparò ed imitò molto da Giuseppe de Ribera suo maestro, anzi che le copie fatte da sua mano quasi non si distinguono dalli originali del detto Giuseppe»36 Cfr. Ceci 1899, p. 165. .
Una attitudine mimetica che non andrebbe interpretata quale generico topos letterario37 Così legge Porzio 2014, p. 71. , considerato innanzitutto che gli appunti dell’Andreini non furono letti dagli autori napoletani, Celano in primis. Allo stato delle acquisizioni, tale qualità non sembra potersi riconoscere né al Passante nato nel 1618, né al cosiddetto Maestro degli Annunci ai pastori. La si può, però, ricondurre allo spagnolo Joan Do, sul quale diremo poi. E ciò sembra voler significare che esistette una tradizione orale di qualche fondamento. Se essa aleggiò davvero intorno alla persona di Passante, dovremo forse coglierne lo spunto e curiosare, con occhio nuovo, tra le numerose repliche antiche tratte dai prototipi di Ribera e finite nel generico fattore denominatore di «copia da» o «bottega di». O, più semplicemente, si potrà credere ad un’avvenuta crasi di notizie superstiti alla peste del 1656 circa alcune delle personalità che avevano, con maggiore o minore protagonismo, usufruito della frequentazione della bottega di Ribera. Per quanto ancora senza concrete soluzioni, la questione merita di essere posta. Ma cambiamo momentaneamente la scena.
Pietro Beato: il vero Maestro degli Annunci?
Anteriormente si è ricordata la figura di Pietro Beato, maestro nato nel 1601 che, dal 1631 incirca, aveva accolto in bottega Bartolomeo Passante da Brindisi. Si è premesso anche che nessuna opera possa a lui relazionarsi con certezza.
Alcuni anni or sono, Gabriele Finaldi proponeva al nome del pittore una tela con Due Filosofi, deposito del Museo del Prado (inv. P002954) presso la Embajada de España di Montevideo38 Finaldi 2012.. Entrato nelle collezioni reali al principio del XIX secolo con il riferimento a Ribera, il quadro doveva attribuirsi a Pietro Beato per la scritta «BEAT» che si scorge, nel verso di lettura favorevole ai due saggi dipinti, su uno dei libri aperti in primo piano in basso, precisamente dal lato del giovane allievo; nonché per l’affinità culturale con il Maestro degli Annunci. Invero, l’opera presenta intonazioni di stile che non ne consentono il piano ricongiungimento all’alveo della pittura secentesca napoletana. Già da lungo tempo, ci si era frattanto chiesti se Beato non fosse l’autore di un San Girolamo della Collezione d’Errico in Palazzo Lanfranchi a Matera, replica di un prototipo di Ribera, recante una sigla «PB» oggi scarsamente leggibile39M. Lafranconi in Collezione d’Errico 2002, pp. 28-29, con bibliografia. .
«Sorprende che lo stesso Bologna non si sia posto già allora il problema di un’eventuale ma non impossibile assegnazione a Pietro Beato tra il 1625 e il 1630 delle tele attribuite a Bartolomeo Passante e/o al cosiddetto Maestro dell’Annuncio (o degli Annunci) ai pastori»40 Spinosa 2021, p. 17. . Così ora esordisce l’autore del più fresco contributo sull’argomento, al quale, tuttavia, sfugge la proposta di Finaldi – assente dalla bibliografia del volume – ma non quella in relazione col dipinto di Matera. Si tratta di una ipotesi ardita, ancora priva del sostegno documentario necessario, ma che qui appare percorribile nei suoi termini essenziali.
Ferdinando Bologna per primo, lo si è raccontato, aveva faticosamente cercato di disegnare l’ambiente culturale più adeguato a un gruppo di opere che, non potendo prescindere dagli sviluppi più vigorosi dell’arte di Ribera, né tantomeno distanziarsi di troppo da essi, avrebbero trovato la migliore delle collocazioni nell’ambito dell’attività di un artista classe 1601, piuttosto che in quella di un secondo maestro nato nel 1618. Ed è sulla base di tale premessa che si sviluppa ora l’ipotesi che Pietro Beato sia il vero Maestro degli Annunci ai pastori.
Ritroviamo l’intera produzione fino al momento attribuita a Passante e/o all’anonimo Maestro divisa in quattro nuclei diversi: 1. Un primo gruppo, «probabilmente assegnabile a Pietro Beato», è costituito da tele «con soluzioni di accentuata matrice naturalistica», databili «all’incirca fra il 1620-25 e il 1630-35»41 Ivi, pp. 33, 52. ; 2. Un secondo insieme, ambientabile «ancora entro il 1635», è giudicato il probabile «risultato di una prima e felice collaborazione» tra Beato e l’ancora giovane brindisino Bartolomeo Passante, come sarebbe per un tassello fondamentale quale l’Annuncio ai pastori di Birmingham42 Ivi, p. 34. ; 3. Un terzo raggruppamento verrebbe, invece, a includere tele dalla cronologia più avanzata, successiva al 1635 ed estesa a tutto il decennio successivo43 Ivi, p. 38. . In questo ultimo trovano posto composizioni accomunate da un medesimo modello (è il caso dell’uomo anziano ritratto nella Morte di sant’Alessio del Castello di Dobris presso Praga, già Castello di Opočno, da rivedersi, almeno, nel portentoso Studio del pittore (o Allegoria delle Arti) della Fondazione Masaveu a Oviedo44 Ivi, cat. A45; cat. A69. ), come pure le allegorie dei Sensi, Vista, Udito, Olfatto, impersonato dall’iconica Fanciulla con una rosa tra le dita della Fondazione De Vito45 Ivi, cat. A64-A67. ; 4. Infine, vi è il nucleo di dipinti giudicati inquadrabili «agli inizi degli anni Quaranta o subito dopo», tra i quali la rinomata Natività di Maria nel Duomo di Castellamare di Stabia46 Ivi, cat. A37. (tela invero da porsi, meglio, sul 1650). Nonostante tali premesse, il catalogo delle opere non prevede una seriazione di tipo cronologico crescente, bensì un raduno per nuclei tematici. Da cui discende che non sempre sia chiaro quali quadri afferenti al primo gruppo, ovvero quelli che spetterebbero a Beato e che figurano organizzati in un range temporale tanto amplio, appartengano, secondo l’autore, al precoce momento «1620-25». A complicare la lettura è, per altro, la circostanza che vede, nelle pagine immediatamente anteriori, un esplicito riferimento piuttosto alla seconda parte del medesimo terzo decennio. Vale a dire al periodo su cui si era incentrata l’attenzione di Ferdinando Bologna, anche in un suo ulteriore intervento dedicato al Maestro47 Bologna 1991, pp. 167-68. .
Il lettore meno addentrato nelle vicende storico-artistiche napoletane della prima metà del Seicento dovrà comprendere che il rilievo non è di poco valore. Sparuti sono tutt’ora, di fatto, i punti fermi utili a rendere coerentemente conto dell’evoluzione del linguaggio locale, tra Naturalismo e Barocco, tra secondo e terzo decennio. Sicché, porre capisaldi del Maestro, quali sono, ad esempio, l’Annuncio ai Pastori e il Ritorno del figliol prodigo entrambi del Museo di Capodimonte di Napoli (fig. 2), «tra il 1620 e il 1625», emendando una consolidata tradizione critica che li aveva ragionevolmente argomentati esattamente un decennio dopo48 Spinosa 2021, cat. A10 e A34, con letteratura. , è conclusione che lascia sorpresi ancora prima che perplessi.
Come sarebbe infatti possibile tramutare le opere appena menzionate nei prodromi, piuttosto che nei necessari esiti del Giacobbe e il gregge di Labano di Ribera del Monastero dell’Escorial (inv. 10014695), firmato solo nel 1632? Un testo chiave per intendere l’evoluzione dell’arte dello spagnolo in direzione pittoricistica. Perché è, naturalmente, Ribera l’unico vero presupposto delle variazioni materiche del Maestro. E Ribera, tra il 1620 e il 1625, non aveva dato ancora prova di volersi addentrare nell’esperienza del disfacimento, da un lato, e dell’inspessimento, dall’altro, dell’amalgama pittorico, sospinto verso il nuovo interesse da un attento studio condotto sulla tradizione del ‘500 veneto, di Tiziano in particolare. Ciò che per il valenzano non cadde prima del biennio 1628-1629, quando egli ultimava la grande Trinitas terrestris e santi per la chiesa francescana delle Trinità delle Monache (Napoli, Museo di Capodimonte, inv. Q1930/1793), senza per altro giungere a esplicitare il risultato al vero pari del quadro del 1632. A voler essere ancora più precisi, non troveremo un solo punto fermo nel catalogo dell’ispanico, in relazione al decennio in esame, ovvero il terzo, davvero bastevole a spiegare il riberismo esasperato del Maestro. Ci si riferisce, almeno, all’intera serie delle incisioni ideate nel biennio 1621-1622; al San Sebastiano con le pie donne del Museo di Bilbao (inv. 69/206), forse del 1621; alla Madonna con Bambino e san Bruno n. 2011.1 della Germäldegalerie di Berlino, in prestito permanente a Weimar, del 1624; al San Girolamo e l’angelo e al Sileno ebbro, entrambi autografati «1626» e al Museo di Napoli (inv. Q1930/312 e Q1930/298). Per trovare i primi spunti utili al discorso bisognerà, infatti, giungere al Martirio di sant’Andrea di Budapest (inv. 523), del 1628, e alla grande pala francescana più sopra rievocata.
Si rifletta ancora.
Stando alla ricostruzione di altri di cui sopra, dovremmo forse anticipare di un decennio, se non di un quindicennio la risposta offerta al caposcuola da parte del Maestro rispetto a quella, di pari vigore, elaborata da Francesco Fracanzano? Colui che, evidentemente non a caso, fu a lungo protagonista di scambi attributivi con l’Anonimo. Dalla grinta portentosa, le rinomate Storie di san Gregorio Armeno, marcate «1635» dal pugliese, alle pareti laterali della cappella appositamente dedicata nella chiesa del santo eponimo, dovranno quindi tramutarsi nei manufatti di un ritardatario? E che dire, last but no least, della moda imperante a Napoli nei primi anni Venti, avente come perno principale di riferimento non ancora Ribera, bensì l’allentato Naturalismo di Battistello Caracciolo (1578-1635)? Non avrebbe forse allora maggior senso ricercare una più degna overture per Pietro Beato tra gli enigmi irrisolti di questa distinta area culturale?
Riassumiamo, assumendo che la cronologia dell’intero corpus del Maestro rimarrebbe priva di logica se l’artista fosse Bartolomeo Passante da Brindisi nato nel 1618. In tal caso, saremmo costretti a far slittare l’intero gruppo di quadri in avanti. Diversamente, un paradigma quale l’Annuncio ai pastori di Capodimonte (fig. 2) diverrebbe la creazione di un artista appena dodicenne. Inoltre, l’intera attività del Maestro andrebbe a concentrarsi in un arco temporale relativamente breve, in quanto sappiamo che Passante decedette fin dal 1648. E si tratta di una produzione pittorica che mostra la sua evoluzione nel tempo: dagli antefatti ribereschi alle eleganze in parallelo con De Bellis e Cavallino.
Dunque, in rapporto al quadro generale dello sviluppo artistico cittadino, Passante fu prima un ritardatario e poi un precursore delle nuove mode imperanti a Napoli? Poniamo, naturalmente, dei quesiti retorici.
Bartolomeo Passante o Bassante e il Maestro di Bovino
Si venga ora all’aspetto che consegue a tali riflessioni. Se Pietro Beato fu davvero il Maestro degli Annunci, quali saranno, allora, i caratteri distintivi della maniera di Passante da Brindisi? Come non spingersi a supporre – si è ancora scritto – che la mano di questo possa riconoscersi nel nucleo di tele «che ho proposto di datare dopo il 1635 e realizzate fino alla prematura scomparsa nel 1648, ma sempre collaborando con il suo primo maestro e ora probabile ‘socio in affari’, che, in ogni caso, gli sarebbe sopravvissuto di ben cinque anni?»49 Spinosa 2021, p. 52. .
È giunto il momento di ricordare che una delle passate e più ragionevoli proposte di identificazione del Maestro degli Annunci in Bartolomeo Passante (tenuto tuttavia distinto dall’artista brindisino Bartolomeo Bassante) si basava sull’analisi degli inventari antichi relativi alle collezioni napoletane; lì dove il nome di Passante appare numerose volte citato quale autore di quadri raffiguranti l’Annuncio o l’Adorazione dei pastori50 Si veda, principalmente, Spike 1992. .
Al momento, però, secondo Spinosa, la mano di Bartolomeo – che non è più il Maestro – risulterebbe presente addirittura nella tela capofila del Museo di Birmingham, lo si è premesso. Ovvero, quelle due prove supreme e pressocché consanguinee da cui hanno preso le mosse gli studi sul Maestro, l’Annuncio ai pastori di Capodimonte (fig. 2) e l’Annuncio ai pastori delle collezioni britanniche, non solo non sarebbero opere interamente autografe, bensì pure prodotti realizzati a distanza di più di dieci anni l’uno dall’altro. Contemporaneamente, l’autore di tale impervia impresa editoriale argomenta, e recusa, anche un’altra ipotesi che era stata avanzata al fine di sciogliere il quesito dell’identità formale di Bartolomeo Passante. Ipotesi che, viceversa, sembra ora la più ragionevole soluzione da adottarsi: parte della produzione dell’artista brindisino si identificherà nel gruppo di opere che vanno sotto il nome del cosiddetto Maestro di Bovino.
L’esposizione dedicata al caravaggismo in terra di Puglia nel biennio 2010-201151Lecce-Bitonto 2010-2011. aveva consentito di studiare a confronto, dopo il 1964, due interessanti pale d’altare: il Martirio di san Pietro della chiesa omonima a Bovino (Foggia; Bovino, Museo Diocesano, fig. 3) e il San Francesco intercede per i poveri presso la Vergine in Santa Maria della Lizza ad Alezio (Lecce).
In accordo con Michele D’Elia, che le aveva assegnate ad un anonimo naturalista da lui appellato Maestro di Bovino, al quale spettava anche il Martirio di san Lorenzo della Parrocchiale di Lizzanello, modernamente attribuito a Pacecco De Rosa (1607-1656), le tele erano state nuovamente aggiudicate ad una medesima mano. Precisamente, a un artefice cresciuto «nell’alveo di Ribera, tale da giustificare le tangenze stilistiche, più volte rilevate negli studi, con il Maestro degli Annunci ai pastori e Cesare Fracanzano [c. 1605-c. 1652], candidati per altro all’autografia della pala di Alezio»52 Farina 2011, p. 13. .
La tela di Bovino in particolare aveva, poi, consentito di individuare il suo autore in colui che dipinse il Matrimonio mistico di santa Caterina, la tela richiamata pagine addietro, recante in basso a sinistra la scritta, non coeva, «Bartolomeus Basa/nte Pinsit»53 V. Farina in Conversano 2018, pp. 314-15, al cat. 44. La si può vedere ora riprodotta anche in Spinosa 2021, cat. E1.. Reso noto da Raffaello Causa, il quadro era stato ricongiunto a una Sacra famiglia in collezione dello studioso stesso e a un San Sebastiano curato dalle pie donne allora a Londra presso Marshall Spink, oggi presso il College Museum of Art di Middlebury, e ad altri due numeri poco pertinenti54 Causa 1972, pp. 930, 974, note 53-55. . Il nucleo pittorico identificato da D’Elia e quello costituito da Causa potevano unirsi, ampliarsi grazie a nuove attribuzioni e andare a comporre il corpus di una personalità artistica autonoma, espressasi in termini distinti da quelli del collega dedicatosi quasi esclusivamente ai temi rurali. I suoi modi andavano giudicati tangenziali solo parzialmente con quelli del Maestro degli Annunci; più vicini alle eleganti inflessioni di Giovanni Ricca (1603-c. 1656) e del più prezioso Francesco Guarini (1611-1651); nonché venati di purismo, quasi ci si trovasse davanti a un Sassoferrato di Napoli, e perciò confondibile anche con il ‘solido’ e classico Pacecco De Rosa. I tre numeri principali del catalogo creato da Raffaello Causa potevano, dunque, rappresentare la maturità del Maestro di Bovino, alias il «Bartolomeo Bassante» studiato dall’allora direttore del Museo di Capodimonte, a partire dalla tela recante il nome di quest’ultimo artista. I dipinti avrebbero potuto ambientarsi sul 1645/1650, come pure nel caso della Sacra famiglia del Museo di Napoli (inv. Q 1930-1507), che Stefano Causa aveva già aggiunto al gruppo individuato dal padre. Ai primi dell’attività del Maestro bisognava, invece, collocare il name-piece pugliese e il Cristo deriso del Museo del Louvre (inv. R.F. 1981-36; fig. 5), ivi assegnato al Maestro degli Annunci. La pala di Alezio mostrava, poi, una genesi da porsi meglio in parallelo con il ciclo di tele, eseguite da più mani, per la chiesa di Santa Maria della Sapienza a Napoli, per la maggioranza legate a pagamenti del 1641.
Sulla base dell’analisi dello stile, all’insieme così formato, andavano ad annettersi altre opere già attribuite in precedenza a Bernardo Cavallino (1615-1656), Pacecco De Rosa, Niccolò De Simone (?-1656) ed altri, tra cui la Santa Lucia condotta al martirio del Museo di Gand55Per tutte le notizie e le relative riproduzioni fotografiche, V. Farina in Conversano 2018, pp. 314, 316-317, con bibliografia. .
Un’altra voce aveva, frattanto, rilevato come il cosiddetto Maestro di Bovino andasse ritenuto un allievo o un membro della bottega del Maestro degli Annunci ai pastori56 Porzio 2014, p. 73. . E a ragione.
Non coglie purtroppo nessuno di questi spunti chi poteva tirare le fila di un così complesso dibattito critico e attributivo. Leggiamo, invece, che le tele di Bovino e di Alezio spettano a due diverse mani e che il Maestro di Bovino stesso sia privo di identità mentre il Cristo deriso del Louvre scivola tra le attribuzioni dubbie del Maestro degli Annunci, e così via57 Spinosa 2021, p. 46 e cat. B3. . Eppure, qui sembra che più di un’opera assegnata al Maestro degli Annunci presenti caratteristiche formali del tutto compatibili con il gruppo cosiddetto Bovino, con il Martirio di san Pietro in particolare.
A titolo didattico-esemplificativo ripresentiamo la Fucina di Vulcano un tempo nello Schlossmuseum di Weimar e ora in collezione privata (fig. 6), in quanto opera descritta, nel 1694, in casa di Alvaro Della Quadra come «originale di Bartolomeo Bassante»58 Spinosa 2021, cat. A71. .
Al confronto con la pietra miliare dell’Annuncio ai pastori del Museo di Capodimonte troviamo una composizione con figure moltiplicate nel numero, disegnate da una mano meno elegante e sicura nel gesto, caratterizzate da muscolature neo-manieriste e teste dal formato ridotto. Tutte peculiarità, queste, che possono rintracciarsi in vari altri manufatti tenuti a torto nel catalogo basico del Maestro degli Annunci. Ad esempio, nel Martirio di San Placido del Museo dell’Abbazia di Montserrat e nel Perseo che si incontra con Fineo di collezione privata59 Ivi, cat. A47; A70. . Consente confronti illuminanti con il gruppo cosiddetto Bovino anche la Morte di Sant’Alessio del Castello di Dobris, fino al 1996 conservata ad Opočno (fig. 4), che, sul retro della tela originale, recava un tempo iscritto «Opera di Bartolomeo Bassante», ma pur sempre dai caratteri formali agilmente assimilabili a quelli del Maestro degli Annunci60 Ivi, cat. A45. . Lo scorcio del volto della madre di Alessio e quello dello stesso santo possono, infatti, scoprirsi pressoché sovrapponibili nel disegno, rispettivamente, a quelli del giovane che solleva la croce e del primo apostolo nel Martirio di san Pietro a Bovino.
L’assenza di ulteriori prove documentarie non consente di nutrire certezze assolute. Ciò nonostante, per quanto sinora esposto, potremmo accettare che: 1. Pietro Beato, nato nel 1601, sia allo stato il maestro che meglio si presta a essere identificato nella figura storico-critica detta comunemente Maestro degli Annunci ai pastori; 2. nonostante manchino quasi del tutto notizie sicure su Beato61 Per i pochi quadri elencati sotto il nome del pittore negli antichi inventari napoletani, Cfr. ivi, p. 17, nota 6. , dobbiamo ricordare che esistono altri casi simili. Primo tra tutti quello di Filippo Vitale (1585/90-1656), maestro su cui tacciono completamente le fonti antiche nonostante la corposa attività pittorica, oggi ben nota e documentata; 3. stima e possibili affinità caratteriali dovettero far sì che Beato concesse rapidamente largo spazio nella bottega al giovane Passante, giunto sul 1631 da Brindisi a Napoli; 4. i due, come è stato ragionevolmente osservato, furono presto in una vera e propria società di affari; 5. un ruolo predominante assunto presto dal più giovane maestro all’interno dell’azienda di famiglia potrebbe spiegare come mai, negli inventari di quadri relativi alle antiche collezioni napoletane, dove si elencano composizioni per tema assimilabili all’attività del Maestro degli Annunci, compaia il nome di Passante/Bassante e non quello di Beato. Bartolomeo poté essere colui destinato alle trattative materiali, alle consegne, etc., tali che il suo ricordo surclassò del tutto quello del parente acquisito nella memoria storica; 6. il corpus del Maestro di Bovino rappresenterà l’attività autonoma di Passante da Brindisi. La cronologia orientativa assegnata al gruppo, di cui sopra si è fatto cenno, dovrà scalarsi entro il termine di morte del 1648. Ma su questo si avrà modo di soffermarsi con più agio in altra occasione.
Resta da ultimo un punto di discussione.
Joan Do
Si ricorderà rapidamente che a lungo è stata perseguita tutt’altra ipotesi di identificazione del Maestro degli Annunci nello spagnolo Joan Do, elencato da Bernardo De Dominici tra i seguaci di Ribera, lo si era premesso. Ciò per il supposto riconoscimento delle iniziali del pittore in un anagramma, formato da lettere intrecciate e dalla complessa decifrazione, vergate su tele raffiguranti mezze figure di filosofi e saggi dell’antichità, tutte già attribuite al Maestro62 Corposa la bibliografia sull’argomento, a partire dal contributo di De Vito 1998, ora interamente catalogata e confutata da Spinosa 2021. Sul tema si veda anche il contributo di Almagro Gorbea y González Zymla 2016. Incentrato su una attribuzione in realtà non corretta, il testo contiene più di un errore e risulta manchevole negli aggiornamenti bibliografici..
Grazie ai ritrovamenti documentari è noto che nell’aprile del 1626 l’artista conosciuto a Napoli come Giovanni Do avesse sposato Grazia De Rosa, figliastra di Filippo Vitale e sorella di Pacecco, testimoni alle nozze Ribera e Battistello Caracciolo. Nel processetto matrimoniale il pittore si dichiarava ventiduenne incirca e residente in città pressappoco da tre anni63 Prota Giurleo 1951, p. 24. . Sappiamo oggi che Do era nato, in realtà, nell’agosto del 1601, dunque un biennio prima di quanto asserito dal maestro stesso alle sue nozze; e che era oriundo di Xàtiva, patria natìa di Ribera64 Cfr. l’atto di battesimo del 1601 in González Baldoví 2007, pp. 556-557. .
Anni or sono il quadro della questione veniva aggiornato dal ritrovamento, nell’altare di Jesús Nazareno della Cattedrale di Granada, di una replica del Martirio di san Lorenzo dello Spagnoletto, quadro più volte copiato (si ricordino almeno gli esemplari di Melbourne, Dresda e della Pinacoteca Vaticana). La pala andalusa reca a destra la firma «Jusepe de Rib[er]a español F. 1639» e a sinistra «IVAN DO F.»65 Jímenez Díaz 2009, p. 31. . Essa offre, dunque, sponda all’asserto di De Dominici secondo il quale Do «fu tanto verace imitatore del Ribera suo maestro, che le copie eran prese per originali»66 De Dominici [1742-45], 2008, III, I, p. 37. .
Si è rilevato come il prototipo del Martirio di san Lorenzo di Ribera potrebbe convincentemente collegarsi a una documentazione napoletana-fiorentina del 1624; sicché, il «1639» segnato sulla copia regolarmente uscita dalla bottega dello spagnolo per essere inviata a Granada sembrerebbe costituire la datazione di quella singola tela richiesta per il mercato iberico. Ci si era posti, allora, pure il problema di appurare la compatibilità tra il ductus pittorico della copia di Granada e quello dell’unica opera ancora esistente a Napoli che le fonti locali collegano al nome di Giovanni Do67 Farina 2017, pp. 44, 46-47. – vale a dire il «bel quadro della Nascita del Redentore … della Pietà dei Turchini», tutt’ora in loco (fig. 7)68 De Dominici [1742-45], 2008, III, I, pp. 37-38. Su di esso, da ultimo, Spinosa 2021, cat. D16. – senza poterne ricavare alcun dato definitivo circa lo stile personale di Do, che, nel trarre una copia letterale, si adeguò il più possibile ai mezzi del suo capo-bottega69 Farina 2017, p. 47. .
Tantomeno apportava nuove certezze la Sacra famiglia con i santi Anna e Antonio da Padova della parrocchia di San Nicola Magno a Santa Maria a Vico (Caserta), nonostante l’importante prova del cartiglio con la scritta «Joane Do. F.» infilato nel volume posto a terra, svelato dal recente restauro70Fatta conoscere da Guida 2016. .
La grande pala d’altare, sita nel transetto sinistro della chiesa e giunta fino a noi in condizioni non ottimali, veniva giudicata quale espressione di una cultura lontana da quella attesa da un artista del partito dello Spagnoletto. Pur echeggiando i tipi femminili della piena maturità di Ribera, essa forniva l’impressione generale di uno stanco stanzionismo, verosimilmente messo in atto sul 1650 o subito dopo. Se ne concludeva che l’opera non potesse ritenersi determinante alla definizione della personalità di quel Joan Do del giro dello spagnolo di cui narrano i documenti; ma pur sempre costituire il fondamento per escludere l’ipotesi della unione tra il pittore firmatosi «Joane Do» e il Maestro degli Annunci ai pastori, prima vigoroso riberista, poi consanguineo di Antonio De Bellis, come nella Natività di Maria nel Duomo di Castellammare71 Cfr. Farina 2017, pp. 46, fig. 5, 47. Il contributo è sfuggito sia a Locker 2019, pp. 171-172, che a Spinosa 2021, cat. D19. . Il ritrovamento della pala casertana invitava, ad ogni modo, alla prudenza e consigliava di presentare l’Adorazione dei pastori della chiesa della Pietà dei Turchini sotto il nome di Do, non seguito dal punto interrogativo, bensì includendolo tra caporali («Maestro dell’Adorazione dei pastori della Pietà dei Turchini, “Joan Do”»). L’intenzione era di alludere semplicemente al nome di artista fornito per la tela da De Dominici72 Farina 2017, p. 47. .
Oggi si vuole spingersi più avanti, e adottare il nome di Do per le didascalie relative alle immagini illustrative di questa ultima sezione.
Esistono, infatti, almeno altre due opere che, per caratteristiche formali del tutto stringenti, erano state nella medesima occasione restituite alla mano autrice del quadro ubicato nella chiesa napoletana73Ivi, pp. 41-44; 48-49. .
Ignorate dagli studi successivi, esse necessitano di essere ripresentate anche solo rapidamente. Un nuovo confronto eterologo aiuta, inoltre, a maturare il maggiore sospetto di trovarsi dinnanzi al corpus, ancora in ricostruzione, di un artista che non fu educato a Napoli, ma che qui fu solo attivo: proprio il valenciano Joan Do. La prima è un sensibile studio a matita rossa, con tracce di gesso bianco, di una donna anziana recante una freccia nella mano, delle collezioni della Christ Church Picture Gallery di Oxford (inv. 1074; fig. 8).
Correttamente identificato in una Santa Irene, reca l’iscrizione (fasulla) «Joseph, a Ribera Hisp.s/f.» che ne aveva fatto supporre la possibile attribuzione a Ribera in persona. Il foglio aveva viaggiato nel tempo accompagnato da una vasta fortuna critica – sino a rappresentare la copertina dell’importante Historia del dibujo en España de la Edad Media a Goya di Pérez Sánchez, del 1986 – ed era rimasto privo di una coerente proposta di attribuzione. Fu dunque allora che si rese possibile ricondurre lo straordinario disegno alla seconda opera che qui interessa: il San Sebastiano curato da santa Irene della chiesa Collegiata di Santo Urbano di Apiro, nelle Marche (fig. 9).
A torto assegnato prima a Mattia Preti (1613-1699) e poi al toscano di adozione Alessandro Rosi (1627-1696), il quadro veniva per la prima volta piuttosto discusso al lato dell’Adorazione dei pastori di Napoli. Quanto al disegno di Oxford, frattanto espulso dal catalogo grafico di Ribera74 Madrid 2016, p. 391, cat. R27. , non lo si qualificava come l’elaborato atto a preparare la tela marchigiana. Vista l’estrema finitura che esalta la componente autonoma dell’opera, se ne metteva bensì in luce la natura di ‘bella’ copia da un precedente quanto oggi disperso esercizio grafico, di cui, con argomentazioni varie, si escludeva, ad ogni modo, la possibile invenzione da parte di Ribera in persona.
Pure creduta ab antiquo dello Spagnoletto era l’Adorazione dei pastori della Real Academia de San Fernando di Madrid (inv. 0496). Dipinto di fama, è stato e continua a far parte del corpus di Joan Do, nella bibliografia di area iberica, come nel recente volume sul Maestro degli Annunci75 Spinosa 2021, cat. D17, con bibliografia. . La composizione è nota pure per il tramite di una replica anni fa di pertinenza della galleria Coll y Cortés e di un secondo quadro (invero possibilmente più tardo), esposto nel Monastero di Santa Paula a Sevilla con il riferimento a Joan Do76 Farina 2017, pp. 48, 50-53. . Previa una elaborata analisi formalista, la tela di Madrid, insieme con la Madonna con Bambino del Museo del Louvre (inv. M-I- 892), che replica il gruppo della Madre con il Figlio tra le braccia, era stata però anche diversamente introdotta, in essa riconoscendo un pastiche alla maniera di Ribera elaborato dal giovane e talentuoso Luca Giordano (1634-1705), il nome che in passato era stato difeso dal solo Pérez Sánchez77 Pérez Sánchez 1964, p. 49. Sull’opera di Madrid e del Louvre si veda, da ultimo, Farina 2020, pp. 232-233. Per il quadro francese, Porzio 2014, pp. 18, 44 («Seguace di Jusepe de Ribera (già attribuito a Giovanni Do)»); Spinosa 2021, cat. D18 (Joan Do). .
Messo da parte questo ultimo tassello, l’uniformità di risultati dei quadri di Napoli e Apiro sarà più agile al riscontro, mentre il foglio di Oxford rimarrà a latere del paragone per le diversità delle tecniche adottate. Le tele in esame presentano alcune comuni e indiscusse peculiarità disegnative. Le stoffe si arricciano e si richiudono, in modo assolutamente tipico, in piccole anse ovaloidi, ad esempio, nella manica destra di santa Irene e nella blusa del pastore anziano inginocchiato; il lenzuolo sottostante il corpo di Gesù Bambino, che pare quasi un pezzo di lana sgualcita78 Bologna 1991, p. 128: «stazzonato e lanoso». , risulta, invece, particolarmente affine nel trattamento alla veste dell’anziana soccorritrice.
Non sono questi caratteri distintivi di nessun altro maestro attivo a Napoli, tantomeno di Ribera. Sembra per contro di rivederli in nuce nel valenciano Francisco Ribalta (1565-1628). Colui che, ricordiamolo, si sospetta possa essere stato il primo educatore di Jusepe de Ribera anteriormente al viaggio in Italia e che a Valencia potrebbe avere rappresentato, dunque, una referenza anche per Do. Curiosando nelle sale del locale Museo de Bellas Artes, si ha avuto il modo di soffermarsi utilmente su alcuni dei dipinti provenienti dal retablo mayor de la Cartuja de Portaceli, commissionato al maestro e al figlio Juan nel 1625 e terminato nel 1627 con la ulteriore collaborazione dell’allievo Vicente Castelló79 Benito Domenech 1987, pp. 170-187, cat. 42-53. . Paradigmatico dello stile di Francisco, il San Bruno (fig. 10) ci ha illuminati al confronto con il quadro della Pietà dei Turchini: per la pennellata assolutamente fluida, la natura liquida dell’impasto pittorico, il tessuto reso soffice come velluto, l’abile rigonfiarsi delle maniche in pieghe che si corrugano in una via particolarmente affine a quella che apprezziamo nelle vesti della Vergine di Napoli.
É, dunque, degna di fede la tradizione orale giunta fino alle orecchie di Bernardo De Dominici che, nella chiesa napoletana, indicava quel raro tassello pittorico del concittadino di Ribera? Con queste nuove osservazioni speriamo di avere percorso un piccolo pezzo di strada in più.
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