La Wunderkammer di Veronica Montanino
In casa. Esperimenti di trasparenza è il titolo di un intervento site-specific dell’artista Veronica Montanino, curato da Maria Grazia Tolomeo, realizzato dal 25 al 27 novembre 2022 dentro una abitazione privata a Roma, in Via Sardegna.
La scelta del luogo d’azione – la casa come spazio architettonico e dimensione quotidiana – è stata fatta dall’artista e dalla curatrice sulla scorta di riflessioni sui temi intrecciati dell’abitare e del collezionare, dell’oggetto domestico e della metamorfosi fra naturale e artificiale. Sono temi che Veronica Montanino frequenta da tempo: sono stati trattati di recente in Natura domestica (2022), installazione site-specific per uno studio romano di architetti, nella mostra Rami – Veronica Montanino al Casino Nobile di Villa Torlonia del 2020-21 e, in precedenza, nell’opera Self Portrait (2011) realizzata per il Padiglione Italia della 54esima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, e negli Habitat, teche di vetro con all’interno collezioni di oggetti.
Il progetto In casa. Esperimenti di trasparenza consiste in due incursioni artistiche negli spazi della dimora: la prima si trova all’interno della cucina quadrata circoscritta da due pareti cieche e due vetrate a tutta altezza che occupa una posizione centrale nella zona giorno; la seconda nel salone adiacente a una delle pareti piene della cucina, delimitato per due lati da partizioni vetrate che affacciano sulle Mura Aureliane. L’appartamento scelto è situato infatti in un palazzo esemplare dell’architettura romana degli anni ’60, un edificio ibrido composto di tre articolazioni completamente differenti, in cui il cemento armato dei piani superiori si mescola ai vetri specchianti di quelli inferiori. La cucina ricorda una grande teca di vetro all’interno della quale Veronica Montanino crea una sorta di gabinetto scientifico con una varietà di elementi naturali assemblati ad arte.
In questo complesso assemblage sono presenti conchiglie, animali, piante e fiori variegati, un ramo di datteri, pigne, funghi, radici di alberi, bambù, cortecce, alveari, scardaccioni selvatici, foglie e rami, alcuni riposti dentro cilindri di vetro e altri semplicemente appoggiati sul tavolo e su tutti i ripiani della cucina, dai fornelli, coperti con una tavola di legno, ai lavandini, che sono stati riempiti con acqua e anilina colorata, uno verde chiaro dal quale fuoriesce un ramo di bambù e l’altro turchese con le foglie grasse dell’aloe.
La cucina, defunzionalizzata per la durata dell’evento, si trasforma così in una sorta di Wunderkammer, una «camera delle meraviglie» di elementi naturali e artificiali, manipolati e allestiti perché lo spettatore possa sia guardare dall’esterno, sia immergersi nella teca-acquario di questa installazione domestica. Una volta esplorata la cucina, si procede verso il salotto, in cui è presente il secondo lavoro della Montanino, disposto sulla trasparenza delle pareti vetrate, che l’artista usa come visori, applicandovi delle immagini che si addizionano alla vista delle Mura. Sono disegni su fogli acetati di tavole enciclopediche con interni del corpo umano, le due ossa craniche, la vertebra e i polmoni, e di corpi naturali come la farfalla e le conchiglie.
Tutti gli elementi naturali riposti nella cucina sono stati raccolti dall’artista attorno alla sua casa in campagna: una volta scelti – per qualche caratteristica formale o materica – vengono lavorati con varie stratificazioni di gessi, colle viniliche, resine e fissativi che bloccano il processo di decomposizione naturale e cristallizzano il manufatto, che sembra essere realizzato in ceramica. Alcuni elementi sono lasciati solamente a questo stadio, mentre altri sono lavorati ulteriormente tramite l’aggiunta di colore: come spiega Montanino – che fra l’altro è docente di Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Firenze – il colore è applicato a volte tramite compressore, per esempio nel caso di un grande tronco pieno di sporgenze sottili, a volte con bomboletta spray, nel caso di alcuni rami, o come vernice liquida, e in questo caso le radici vengono direttamente immerse nel colore liquefatto. Oltre al colore e ai fissativi, l’artista fa un cospicuo utilizzo anche dell’argilla per deformare vasi o adornare piccole bambole giocattolo delle quali si intravedono solamente i piedini e per creare minuscoli oggetti dalle forme astratte. Quello che si viene a formare è un laboratorio fantastico in cui esplodono le cromie del turchese, verde acqua, giallo, rosa e arancione in una coerente transizione cromatica dai colori freddi sui ripiani ai colori caldi sul tavolo.
Mentre la cucina esaspera la dimensione cromatica, per gli interventi in salone Montanino sceglie il bianco e nero dei disegni a pennarello su fogli acetati, applicati ai vetri di modo che, di giorno, le raffigurazioni si confondono con la vista dell’esterno.
La contrapposizione tra naturale e artificiale è il fil rouge che percorre l’intero intervento. L’artista accosta elementi reali ad altri fittizi, per esempio affianca un geco giocattolo a due carcasse vere del medesimo animale e ancora, avvicina un piccolo ragno finto allo scheletro di quello reale dentro un contenitore di vetro. Interessata alla negoziazione del confine tra naturale e artificiale, non vuole contraffare tutti gli elementi tramite il suo intervento, ma lascia che, in parte, la presenza tutt’altro che fragile della natura agisca liberamente e si inserisca in maniera tracotante all’interno del discorso artistico.
Manipolazioni, metamorfosi, trasformazioni: non è un caso che tutti gli oggetti modificati si trovino in cucina, il laboratorio chimico quotidiano in cui gli elementi subiscono i cambiamenti e i rimaneggiamenti necessari alla preparazione del cibo. Ecco che, allo stesso modo, alcuni oggetti naturali raccolti dall’artista vengono destabilizzati e tramutati in opera d’arte.
La cucina si presta a evocare, oltre un gabinetto alchemico e una Wunderkammer, anche un raccoglitore che propone gli oggetti in un sistema classificatorio fittizio: nell’opera, nulla è schedato o catalogato e l’insieme risulta come qualcosa di disobbediente, qualcosa da declassificare, come è emerso anche dai commenti dei visitatori che – nei giorni di apertura – hanno contribuito a dare sfumature di significato al progetto.
“Il mio sistema classificatorio è provocatorio, perché di fondo parla della fallibilità di tale metodo cognitivo, che oggi sappiamo averci dato solo conoscenze parziali, e vuole essere, all’opposto, una riflessione sull’inclassificabilità del reale. I miei sono oggetti palesemente non classificabili per via del modo in cui li manipolo, e che faccio solo finta di ordinare” precisa l’artista.
L’installazione diventa quindi un esercizio per lo sguardo, invitato a riconoscere le varie componenti che, tramite il processo artistico, hanno perso i loro colori naturali e mantengono solamente la loro forma originaria.
Chi guarda deve fare continui reset, attivare nuove strategie sensoriali per collocare ciò che vede in un sistema noto, riconoscendo qualcosa di familiare nei componenti di quest’opera. È la forma degli oggetti a offrire indizi di risconoscibilità dei singoli dettagli, là dove il colore li rende invece misteriosi: il colore copre e rende irriconoscibile, la forma lascia trapelare in trasparenza la natura di ciascuna cosa.
In questo repertorio minerale, vegetale e animale privo di didascalie, lo spettatore si trova disorientato e spiazzato davanti alla potenza variabile delle forme della natura lasciate in un disordine composto; anche le immagini che compaiono, in salotto, sugli acetati, sottratte alla loro descrizione, possono essere qualsiasi cosa, tant’è che molti visitatori si sono confusi rispetto al loro significato.
Intervistata, nel corso dell’evento, sul ruolo dell’alchimia, anche in relazione agli studi che Maurizio Calvesi dedicò a questo tema e alla sua presenza nell’arte contemporanea, Veronica Montanino spiega: “Per quanto riguarda l’alchimia, certamente nel mio lavoro è presente come pratica della trasmutabilità dei materiali poveri che diventano preziosi, subiscono una vera e propria trasformazione; e ancora, come allusione alle pratiche magiche (pre-moderne, pre-razionaliste) anche in relazione alla produzione di artifici e inganni visivi, illusori necessari alla sopravvivenza dell’immaginazione e alla formazione di un pensiero intriso di inventiva”.
Per la realizzazione del progetto è stata scelta una casa dalle caratteristiche particolari, nel palazzo romano progettato dall’architetto Lucio Passarelli, definito “una delle architetture più iconiche di Roma, esprimendo uno stile autonomo ma memore del passato” (L. Prestinenza Puglisi, Lucio Passarelli, l’equilibrato). Costruito tra il 1961 e il ’65, l’edificio nasce come palazzina multifunzionale e le sue diverse funzioni sono evidenziate dall’uso dei materiali, la sommità è destinata alle residenze trattate con la graniglia, il gres e con il legno degli infissi; alla base si trovano i piani destinati agli uffici rivestiti dal vetro brunato, curtain wall, che crea un effetto a specchio duplicando la vista delle Mura Aureliane e del verde intorno; al piano terreno, in posizione ribassata rispetto al livello stradale, vengono collocati i negozi. Come si legge in dettaglio nella scheda dell’Atlante dell’Architettura Contemporanea, il segreto dell’edificio risiede proprio nella sua libertà di montaggio e nello scontro tra due linguaggi diversi, quello asciutto della vetrata continua ai piani inferiori che segue il perimetro dell’area di forma trapezoidale e quello organico di alcune abitazioni residenziali sovrapposte in tutta libertà ai piani superiori, “una serie di grandi vassoi che si protendono a sbalzo”.
Il progetto In casa. Esperimenti di trasparenza prende forma all’interno dell’abitazione privata – ristrutturata dall’architetta Elisabetta Avallone – per due motivazioni principali, da una parte – come si legge nella presentazione – vuole “esplorare la fusione tra architettura e arte, il confine tra utile e inutile, la tensione tra interno ed esterno”: la mostra si sposa infatti perfettamente con le recenti teorie del filosofo Emanuele Coccia secondo cui la casa, prima di essere artefatto architettonico è un artefatto psichico (casualità vuole che la proprietaria di casa sia tra le altre cose una psicologa) perché “noi abitiamo davvero solo le cose. Sono gli oggetti a ospitare il nostro corpo, i nostri gesti, ad attirare i nostri sguardi, a impedirci di scontrarci con la superficie squadrata, perfetta, geometrica della casa, a proteggerci dalla sua violenza. (…) In casa tutti gli oggetti diventano soggetti. Ecco una buona definizione: è casa quello spazio in cui tutti gli oggetti esistono come soggetti” (E. Coccia, Filosofia della casa, Einaudi 2021). Quanto al secondo motivo: l’intervento di Veronica Montanino si vuole allontanare dagli spazi più canonici e deputati per avvicinare l’arte alla dimensione domestica, quel mondo privato che altrimenti rimarrebbe chiuso in sé stesso. In questa proposta, l’arte diventa qualcosa di più intimo e familiare mentre la casa si trasforma in uno spazio aperto in cui si ha l’opportunità di creare relazioni, incontrare persone e fruire di un progetto artistico accessibile a tutti.
Nel suo intento di tenere vicine arte e vita, l’artista sostiene che “la manipolazione di oggetti riporta a una dimensione quotidiana del pratico e meno a una sfera sacrale, staccata dal quotidiano. L’arte viene riportata a una dimensione domestica e in questo modo diventa un altro modo di guardare, diverso dallo spazio della galleria strutturalmente più asettico nella sua autonomia. In casa c’è un ambiente in cui lo spettatore può accomodarsi”.
In conclusione, un brano del testo che ha accompagnato l’evento: “Questo esperimento di «arte in casa» propone l’ipotesi di una immagine non ordinaria che, innestandosi nell’ordinarietà del quotidiano, funzioni a contrastarne l’inerzia.
Per l’artista si tratta di tassonomie non verbali, inventari percettivi, collezioni di forme e colori brulicanti. Archivi e pensieri che si sovrappongono mostrando vincoli, legami, relazioni di una personalissima epistemologia visiva. Architetture interiori dalle quali originano visioni che comprendono il mondo interiore dell’artista, dell’abitante, dell’ospite accolto in un habitat di fantasmagoria e grande seduzione visiva”.
Diletta Monaco, dicembre 2022
Immagini: courtesy Bernardo Battistini, Giorgio Benni e l’artista