Il De Cruce di Giusto Lipsio: una fonte iconografica fra l’Italia e la Spagna
Il presente studio prende in esame la fortuna del De Cruce Libri Tres ad Sacram Profanamque Historiam Utiles (1593) di Giusto Lipsio nell’iconografia sacra fra ‘500 e ‘600, con particolare attenzione al dettaglio del suppedaneo nelle crocifissioni italiane e spagnole. Per la sua stesura è presa a riferimento la teoria degli immaginari storici elaborata nel corso del progetto Immaginare i saperi, di cui è parte uno studio più ampio sulla circolazione dell’immaginario e delle immagini-latenti lipsiani nelle collezioni d’arte europee1.
Il De Cruce è un’opera filologica di Giusto Lipsio dedicata ai tipi di crocifissione e di gogna usati nell’antichità come supplizi. Con la sua pubblicazione si stabilisce la distinzione fra crux simplex (un palo verticale su cui il condannato veniva affisso o impalato) e crux compacta (unione di due pali), che può essere suddivisa in crux decussata (X), crux commissa (T) e crux immissa (✝). A differenza di quanto ci si aspetti dal titolo, l’autore non inserisce nessuna considerazione teologica; solo in un caso, nel capitolo X del libro I, fornisce una propria opinione di questo genere, sostenendo che Cristo sia stato crocifisso su una crux immissa (Lipsio 1594, pp. 8-24)2.
A differenza delle traduzioni in volgare delle opere filosofiche, sulla circolazione del De Cruce in Italia non si sa molto: nel 1595 Domenico Basa, direttore della Stamperia Vaticana fino al 1596, ne cura la ristampa, dopo che la seconda edizione era stata pubblicata nel 1594 ad Anversa per i tipi di Plantin, mentre nel 1610 Giacomo Bosio ne trae ispirazione per il suo trattato storico Trionfante e gloriosa croce, pubblicato sette anni più tardi in latino sempre per i tipi di Plantin3. Inoltre, probabilmente ne favorirono la diffusione la notorietà europea di Lipsio come intellettuale, il suo ritorno alla religione cattolica nel 1591 – dopo un’iniziale conversione alla fede luterana nel 1572 -, l’interesse dottrinale per la corretta rappresentazione dei soggetti religiosi e il recupero antiquario, tipico alla fine del ‘500, delle antichità cristiane.
Il testo era di certo presente nelle biblioteche di Cesare Baronio, Antonio Gallonio, Francesco Maria II della Rovere, Giulio Pallavicino, Giovanni Vincenzo Imperiale e probabilmente doveva comparire nelle biblioteche di Federico Borromeo (amico intimo di Lipsio), dei gesuiti (l’ordine con il quale si forma Lipsio) e dei teatini4.
Infatti, per la chiesa di San Vitale a Roma Tarquinio Ligustri affresca, fra il 1599 e il 1603, il Martirio di san Pafnuzio (Fig. 1), forse seguendo il testo e l’illustrazione dedicati alla crux simplex nel capitolo V del libro I del De Cruce (Fig. 2), dove è citato un estratto dal Martyrologio di Cesare Baronio per spiegare come san Pafnuzio fosse stato affisso a una palma, probabilmente con dei chiodi (Lipsio 1594, p. 9).
Più o meno negli stessi anni, fra il 1597 e il 1600, proprio Cesare Baronio faceva dipingere sulle navate laterali della chiesa dei Santi Nereo e Achilleo tredici scene con i martiri degli apostoli, in cui la Crocifissione di sant’Andrea (Fig. 3) è molto simile a quella nel capitolo VII del libro I del De Cruce (Fig. 4).
Anche in questo caso, dopo una rassegna di passi tratti da Girolamo, Giustino martire e Giovanni Damasceno a favore della forma decussata, viene citato il Martyrologio baroniano, le cui riflessioni, a detta di Lipsio, metterebbero in dubbio la tradizione precedente, portando a credere che sant’Andrea sia stato crocifisso su una crux simplex e non su una crux decussata (Lipsio 1594, pp. 12-14).
È interessante notare come Baronio, nonostante i dubbi, opti, nella sua chiesa titolare, per un’iconografia del tutto tradizionale, differentemente – come nota Alessandro Zuccari (Zuccari 2012, pp. 456-463) – da quanto farà Caravaggio per la Crocifissione di S. Andrea5.
Il legame fra Lipsio e Baronio era nato nel 1593, nel periodo in cui la Politica veniva messa all’Indice, per poi continuare almeno fino al 1600, quando Baronio in una lettera del 1599 esprime a Lipsio il suo desiderio di vederlo arrivare a Roma in occasione del Giubileo6; inoltre, a consolidare i rapporti fra i due forse contribuirono anche le amicizie comuni con Federico Borromeo e Peter Paul Rubens. Per questo non è da escludere del tutto una possibile influenza della “crux andreana” pubblicata nel De Cruce nell’iconografia della Crocifissione di sant’Andrea ai Ss. Nereo e Achilleo, un influsso che cinquant’anni più tardi arriva fino al Martirio di sant’Andrea di Mattia Preti (1650) a S. Andrea della Valle.
Anche per Francesco Maria II della Rovere è possibile dedurre un riferimento puntuale al De Cruce, di cui possedeva una copia nella scansia n. 21 (De sacramentis ecclesiae) della sua Libraria. Già dal 1593, dopo la fine del matrimonio con Lucrezia d’Este e senza un figlio a cui tramandare la casata, iniziò a ordinare ripetutamente quadri aventi come soggetto principale la crocifissione (Moretti 2013, pp. 32-38; Noto 2022, pp. 98-99). Fra questi compare il Cristo vivo di Federico Barocci (1604), caratterizzato da un dettaglio particolare, assente nella Crocifissione che il Duca già possedeva di Marcello Venusti, ispirato a un’invenzione di Michelangelo: una tavoletta perpendicolare alla croce, chiamata suppedaneo, su cui sono inchiodati i piedi del condannato. Tratta forse dal capitolo X del libro II del De Cruce (Fig. 5), era utilizzata secondo Lipsio per scaricare il peso del corpo sospeso da terra, così da non spezzare le giunture delle mani già fissate, e la sua esistenza storica, oltre che nei dipinti e nelle sculture antiche, è testimoniata dalle parole di Gregorio Turonico, Innocenzo, Ireneo e Giustino Martire, secondo cui la croce è suddivisa in cinque estremità: quattro note, mentre la quinta si trova nel mezzo, dove il legno viene spaccato trasversalmente; per queste ragioni – continua Lipsio – il particolare del suppedaneo non può essere trascurato, perlomeno nella crocifissione del Cristo (Lipsio 1594, pp. 49-52).
Barocci aveva introdotto il suppedaneo già nel 1596, quando consegnò a Matteo Senarega la Crocifissione con la Vergine, san Giovanni Evangelista e san Sebastiano, commissionatagli nel 1590 per la cappella di famiglia nella cattedrale di San Lorenzo a Genova (Magnani 2019, pp. 40-42). Anche se in questo caso, a differenza dei precedenti, Cristo non è vivo, il dettaglio merita attenzione, perché non solo il De Cruce compare negli inventari genovesi di Giulio Pallavicino e Giovanni Vincenzo Imperiale, ma più in generale la diffusione dei testi di Lipsio è testimoniata, nella stessa città, dalla loro presenza nella biblioteca di Gerolamo Balbi7, dall’arrivo di Rubens nel 1606, dalla prima edizione in volgare del De Constantia (1608) per i tipi di Giuseppe Pavoni8 e dagli stretti rapporti che legavano la Spagna soprattutto con la famiglia degli Spinola, tant’è che la vittoria di Ambrogio Spinola venne celebrata ne La resa di Breda (1634-1635) di Velázquez all’interno del Salón de Reinos.
Anche Francesco Maria II fu in contatto diretto con la Spagna per tutta la vita, prima formandosi nella sua corte fra il 1565 e il 1568, poi ottenendo il Toson d’oro nel 1585, fino a ospitare nel ducato di Urbino dal 1606 i Chierici Regolari Minori, un ordine di spiritualità spagnola. Ma insieme ai legami politici convivevano anche quelli estetici, con l’invio a Filippo II della Chiamata di sant’Andrea (1585) di Barocci e l’acquisizione da parte di Margherita d’Austria nel 1604 della Natività (1597), sempre di Barocci, artista richiestissimo negli ambienti spagnoli (Moretti 2013, pp. 19-32). Per queste ragioni il Duca decise di donare a Filippo IV, stabilendolo nell’ultimo testamento del 30 gennaio 1628, il Cristo sulla croce, che insieme al De Cruce potrebbe essere stato uno dei segnavia iconografici per i soggetti analoghi di Velázquez e Zurbarán, tutti accomunati dallo stesso particolare del suppedaneo, assente in altri esempi spagnoli come la Crocifissione (1550) di Tiziano, la Crocifissione (1600) di Orazio Borgianni e, più in generale, nelle crocifissioni di El Greco.
Non è però il solo. Infatti dopo il 1624 Catalina Enríquez de Ribera dona alla Colleggiata di Osuna il Calvario di Ribera, dipinto nel 1618 per il marito Pedro Téllez-Girón, III duca di Osuna e viceré di Napoli – in quel momento sotto il dominio spagnolo – dal 1616 al 1620 (Spinosa 2006, p. 278). Anche in questo caso compare il suppedaneo – assente invece nel Calvario (1616-1617) di Guido Reni forse preso come modello – e la sua presenza probabilmente dipende dalla stretta amicizia del duca di Osuna con Francisco de Quevedo, responsabile della Tesoreria Reale del vicereame (Tarsia 1792, p. 63) e corrispondente di Lipsio, come prova la lettera LV contenuta nell’Epistolarum selectarum centuria quinta, dove i due leggono a vicenda le proprie opere (Lipsio 1607, p. 54). Inoltre, nel 1635 Quevedo pubblica l’Epicteto y Phocilides e la seconda edizione contiene un frontespizio, realizzato da Juan de Noort, chiaramente ispirato a quello eseguito da Rubens per la seconda edizione del Seneca (1615) di Lipsio (Ettinghausen 1971, pp. 95-97), che all’interno del testo è considerato come «[…] Christiano Estoico; fue defensor de los Estoicos, fue Maestro desta doctrina» (Quevedo 1635, p. 21).
È importante notare come la popolarità del pensiero di Giusto Lipsio in Spagna fra XVI e XVII secolo è stata vastissima, sia fra i circoli umanistici sia fra l’élite politica. A favorirne la diffusione contribuì, in un primo momento, l’amico Andreas Schott, che, trasferitosi dalle Fiandre a Toledo verso la fine del 1579 insieme a Petro Pantino, lo mise in contatto epistolare con alcuni intellettuali spagnoli9. Però il vero successo arriverà solo nel 1591, con il ritorno al cattolicesimo dopo l’iniziale conversione alla fede luterana del 1572: infatti Arias Montano, il cappellano di Filippo II, che lo aveva del tutto ignorato durante un viaggio nelle Fiandre mentre era ancora protestante, ora lo invitava a Madrid, definendolo come uno degli “ornamenti della patria e della repubblica” e offrendogli ospitalità nella propria casa10; invece, Petro Pantino nel 1593 gli comunica in una lettera: «vedo che i tuoi scritti diventano qui ogni giorno più preziosi, e ne sono felice», mentre nel 1595 il gesuita P. Ribadeneyra cita la Politica nel Tratado de la Religion y Virtudes que debe tener el principe cristiano11.
Lo stesso Lipsio, in realtà, era deciso a riallacciare i rapporti con la Spagna e a fare breccia nella sua corte, al punto da inviare al giovane Filippo III prima numerose lettere riguardanti la potenza militare e poi dedicandogli nel 1595 la prima edizione del De milita romana, dove celebra nelle pagine introduttive Ferdinando d’Aragona, Isabella di Castiglia, Carlo V e Filippo II (Lipsio 1598, pp. 3-8). Inoltre, ne l’Admiranda sive de magnitudine romana, del 1598, sostiene che nel corso della storia l’impero romano non ha mai smesso di esistere perché è sopravvissuto all’interno della monarchia asburgica (Lipsio 1598, p. 199).
Grazie a questa diffusione progressiva, dagli inizi del XVII secolo in poi le traduzioni spagnole dei suoi libri arrivano una dietro l’altra: nel 1604 Bernardino de Mendoza pubblica a Madrid Los seys libros de las Políticas, dedicati «A la nobleza española qui no entiende la lingua latina», nel 1616 Juan Baptista de Mesa dà alle stampe a Siviglia il Libro de la Constancia de Justo Lipsio, invece nel 1622 è il turno de El major Principe Trajano Augusto, titolo dato da F. De Barreda al Liber Panegiricus (1604). In particolare, è unanime l’apprezzamento rivolto dai vari curatori alla sua edizione critica di Tacito del 1574: è lui l’autore più citato nella versione del 1614 di B. Álamos de Barrientos, mentre A. de Herrea, nella traduzione del 1615, gli dedica queste parole: «mediante la diligentia de Justo Lipsio ha sido tan recibido [Tacito] de todas las naciones que ejercitan las letras que le han querido ver en sus proprias lenguas»12. Ancora quaranta anni più tardi D. Saavedra Fajardo – dopo essere stato influenzato dalle opere filosofiche di Lipsio e dagli stoici per la stesura dell’Idea de un príncipe político christiano representada en cien empresas (1640) (López Poza 2008, pp. 209-234) – ne La República Literaria (1655) riconosce il valore storico dell’impresa filologica dedicata a Tacito e dell’influenza avuta in tutta Europa13.
Oltre al circuito umanistico, il pensiero di Lipsio attecchisce anche nell’entourage amministrativo degli Asburgo e in particolare fra i diplomatici sivigliani, come Juan de Vera y Figueroa – che nel 1620 pubblica El Embajador una guida per ambasciatori ispirata al De Constantia e alla Politica – e Baltasar de Zúñiga, probabilmente il suo più grande diffusore in Spagna. Infatti, dopo l’arrivo nei Paesi Bassi intorno al 1599 con il compito di negoziare una pace con l’Inghilterra14, i due, grazie all’importanza delle loro cariche e agli interessi comuni per gli autori classici, iniziano una corrispondenza fatta di commenti su Cicerone e Seneca, di libri scambiati (Lipsio 1604, pp. 77, 81), che presto si trasforma in amicizia; un’amicizia sancita dalla dedica all’«Ill.mo Domino D. Balthasari De Cuniga Regis Hispaniarum & Indiarum Legato» nell’Epistolarum selectarum centuria prima ad Belgas (1600). Di lui vengono messe in risalto, da un lato, le abilità politiche, la saggezza nell’affrontare le questioni difficili, la rarità della virtù e della dottrina, mentre dall’altro l’erudizione, l’interesse per gli studi e l’utilità che da tale sapere ne ricavano le corti del presente (Lipsio 1602, pp. 1-2).
Nonostante l’ammirazione reciproca, i rapporti si interrompono bruscamente nel 1603 per ragioni politiche, quando le scelte diplomatiche di Zúñiga, in partenza per Londra, aumentarono i conflitti nei Paesi Bassi piuttosto che spegnerli. Ma anche dopo la rottura definitiva il suo interesse per il pensiero di Lipsio non scompare e una volta ritornato a Madrid nel 1617 come membro permanente del Concilio di Stato, introduce il nipote Gaspar de Guzmán, futuro conte duca di Olivares, sia alla corte spagnola sia agli studi lipsiani15.
Infatti, nell’inventario della Biblioteca selecta del Conde-Duque de Sanlúcar, Gran Chanciller, impresa-manuscrita. Autores y materias, redatto da Lucas de Alaejos fra il 1625 e il 1627, compare da c. 62v a c. 63v l’opera completa in latino di Giusto Lipsio, fra cui è elencato anche il De Cruce.
In particolare, Olivares potrebbe essere stato colpito dall’illustrazione inserita nella nota al capitolo VIII del libro II (Fig. 6), dove si approfondisce il supplizio della crocifissione con le funi, che avviene o fissando il condannato sulla croce già eretta con l’aiuto di tre scale, oppure issandolo con delle corde dopo avergli legato le mani e il petto a una trave mobile (Lipsio 1594, pp. 108-109).
Nel 1639 il duca di Medina de las Torres commissionò a Ribera il Martirio di san Filippo (Fig. 7) (Spinosa 2006, pp. 196-197, 348) forse per omaggiare il santo patrono di Filippo IV e siccome era il genero di Olivares – il ministro più potente della Spagna – non è da escludere la possibilità che gli chiedesse un consiglio iconografico per intercettare al meglio i gusti del re, un consiglio che rimandava direttamente a quella precisa indicazione bibliografica del De Cruce.
Attraverso questa fitta rete di percorsi il testo di Lipsio – o quantomeno le sue tesi – potrebbe essere arrivato intorno al primo decennio del XVII secolo nelle mani di Francisco Pacheco, che aveva la bottega a Siviglia, uno dei maggiori centri lipsiani, dove orbitavano Arias Montano, Juan Baptista de Mesa, Juan de Vera y Figueroa, Baltasar de Zúñiga e Fernando Afán de Ribera, III duca di Alcalà, suo caro amico e con una biblioteca di oltre 9000 volumi. Fu lui a commissionargli nel 1603 l’affresco con l’Apoteosi di Ercole sul soffitto del Camarin Grande e a difenderne la tesi, nel trattato Del titulo de la cruz (1619), secondo cui Cristo venne crocifisso con quattro chiodi al posto di tre (Brown, Kagan 1987, pp. 233-234). Pacheco discuterà questo tema nel capitolo XV (En favor de la pintura de los quatro clavos con que fue crucificado Christo nuestro Redentor) dell’Arte de la pintura (1649), dove inserisce, in modo da giustificare la sua scelta iconografica di dipingere i quattro chiodi, il discorso scritto per lui da Don Francisco de Rioja, che sostiene, dopo una lunga citazione tratta da Luca Tudense contro l’eresia albigese dei tre chiodi, l’esclusiva presenza dei quattro chiodi nelle immagini antiche e il primo esempio citato è l’illustrazione inserita nella nota al capitolo X del libro II del De Cruce (Fig. 8) (Pacheco 1649, pp. 602-603). In quel passo Lipsio si limita a mostrare la copia di una moneta greca inviatagli dall’amico Dioniso Villerio, senza fornirne troppe spiegazioni: conservata nel monastero di Laetitia in Annonia e appartenuta nel 1208 all’Imperatore Enrico di Fiandra, all’interno contiene un Cristo crocifisso con quattro chiodi, i piedi fissati su un suppedaneo e tutt’intorno un’iscrizione che recita “La redenzione del mondo, il sangue della parola divina” (Lipsio 1594, p. 111).
Dopo un lungo elenco di rappresentazioni simili visibili in numerose chiese spagnole, Rioja ritiene Francisco Pacheco, artista diligentissimo e attento al decoro della pittura, il primo a quel tempo in Spagna ad aver ripristinato in alcuni suoi dipinti di Cristo, seguendo l’autorità degli scrittori del passato, l’uso antico dei quattro chiodi e del suppedaneo (la quinta estremità della croce), su cui sono inchiodati i piedi; non a caso viene poi citato subito il passo di Gregorio Turonico usato da Lipsio nel De Cruce (Pacheco 1649, pp. 602-604). Lo stesso era già accaduto nel 1624, quando Federico Borromeo inserisce nel capitolo III (De crucifixi imaginibus) del De pictura sacra le citazioni di Gregorio Turonico, Ireneo e Giustino Martire (proprio nello stesso ordine del De Cruce) per parlare dei quattro chiodi della croce e del suppedaneo, considerando particolarmente attendibili le parole di Gregorio Turonico per l’accuratezza con cui era solito analizzare simili tematiche (Borromeo 1754, pp. 52-56).
Alla fine del discorso di Rioja, Francisco Pacheco scrive la sua risposta, ricapitolando la tradizione degli autori cristiani a sostegno dei quattro chiodi e decretandone la veridicità con una citazione in chiusura tratta dal «Prologo del tratado de las siete palabras, que salio en Roma año de 1618» (Pacheco 1649, p. 68) di Roberto Bellarmino, dove si sostiene che la croce era composta da tre legni, uno oblungo per il corpo, uno trasversale per le mani e un terzo, nella parte inferiore, per fissare i piedi uno accanto all’altro, non uno sopra l’altro: da ciò consegue – e Gregorio Turonico, Ireneo e Giustino sono richiamati ancora una volta – la presenza dei quattro chiodi e non di tre (Pacheco 1649, p. 68).
Quindi, se Velázquez forse è venuto in contatto con il De Cruce tramite il proprio maestro Pacheco e Zurbarán attraverso la sua formazione in una bottega di Siviglia, non è da escludere la possibilità che Ribera, dopo averlo conosciuto prima con il duca di Osuna poi con il duca di Medina de las Torres, lo usasse di nuovo nella Crocifissione dipinta nel 1643 per don Pedro de Oreitia y Vergara, ministro del re Carlo II (Spinosa 2006, p. 364). Ma ancora centocinquanta anni dopo, Goya guarda a questa tradizione artistico-letteraria quando presenta alla Real Academia de Bellas Artes de San Fernandoil suo Cristo crocifisso (1780).
Giovanni Pacini
NOTE
1) Il contributo presenta i risultati di una più ampia ricerca avviata all’interno del progetto universitario “Immaginare i saperi”, ideato e coordinato da Massimo Moretti con la collaborazione di Daniela Fugaro direttore della Biblioteca Universitaria Alessandrina.
2) Per un’introduzione al De Cruce si veda Pickering 1980, pp. 59-74.
3) Cfr. Provvidera 2016, pp. 350-351, 355.
4) Cfr. Zen 1994, pp. 392-397. Cfr. Finocchiaro 2009, p. 124. Cfr. BUA, Ms. 50, c. 323r. Cfr. Montanari 2015, pp. 219-268, 269-282. Cfr. Ferro 2005, pp. 311-349.
5) Sui rapporti tra Lipsio e Baronio si veda oltre al citato contributo di Zuccari, Zen 2008.
6) Cfr. Lipsio 1602, p. 60; Lipsio 1604, pp. 8-9, 67-68, 88. Alberici 1759, pp. 362-363, 463-465.
7) Cfr. Montanari 2015, pp. 283-297.
8) Cfr. Provvidera 2016, p. 346.
9) Cfr. Antón Martínez 1993, p. 240.
10) Cfr. Corbett 1975, p. 144.
11) Cfr. Antón Martínez 1993, pp. 243-244.
12) Antón Martínez 1993, pp. 243-244.
13) Cfr. Antón Martínez 1993, pp. 237-238.
14) Cfr. Corbett 1975, p. 149.
15) Cfr. Corbett 1975, p. 150.
BIBLIOGRAFIA
Antón Martínez 1993
B. Antón Martínez, El humanista flamenco Justo Lipsio y la receptivo del Tacitismo en España, in J. M. Maestre, J. Pascual Barea (a cura di), Humanismo y pervivencia del Mundo Clásico I. 1, Universidad de Cádiz, Cádiz 1993.
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